Gaza e il delirio della guerra infinita
Israele si appresta ad attaccare l’ultima ridotta palestinese, la città di Rafah, al confine egiziano, nella quale sono ammassati 1.4 milioni di rifugiati ridotti alla fame a causa delle restrizioni degli aiuti. Sarà un massacro che si aggiunge ai precedenti. Non ci sono parole per quanto sta accadendo, 28mila i morti, per lo più bambini, ma bisogna trovarle.
Biden, l’anatra zoppa
L’America continua a esercitare le sue cortesi pressioni sull’alleato: dopo le dichiarazioni del Segretario di Stato Tony Blinken, che ha detto che Israele non può usare la disumanizzazione del 7 ottobre “per disumanizzare gli altri”, è stata la volta di Biden, che ha parlato di una reazione “esagerata” da parte di Israele, aggiungendo che “ci sono un sacco di persone innocenti che muoiono di fame, molte persone innocenti che sono nei guai e muoiono e tutto questo deve finire“.
Peccato che, nel dir questo, è inciampato in una delle sue solite gaffe, scambiando il presidente egiziano al Sisi – col quale aveva parlato per portare aiuti ai palestinesi – per il presidente del Messico. Nello stesso giorno, il verdetto del procuratore speciale incaricato di indagare sull’indebito possesso da parte di Biden di documenti riservati presso le sue abitazioni, si è risolto con la non punibilità del presidente perché anziano e smemorato (leggi: affetto da demenza).
Un verdetto che potrebbe rappresentare l’inizio della fine della sua presidenza e che rafforza la spinta all’interno del suo partito per cambiare candidato per le presidenziali. Prospettive che già ora fanno di Biden un’anatra zoppa. In tale condizione non ha alcuna possibilità di far cambiare rotta a Israele con le parole, avendo perso l’aura di autorevolezza che si attaglia all’imperatore, qualsiasi esso sia.
L’unica pressione reale, ad oggi, a parte le piazze mondiali mobilitate per fermare la guerra, è il declassamento del rating di Israele da parte di Moody (“la prima volta nella storia del Paese”, annota Haaretz) perché tocca il portafogli. Ma Netanyahu lo ha liquidato con una battuta: un accidente passeggero.
Il premier israeliano ha anche cercato di affossare definitivamente i negoziati, avendo dichiarato che, dopo il rifiuto della proposta di Hamas per uno scambio di prigionieri finalizzato a chiudere il conflitto, non avrebbe avanzato nuove proposte di tregua, insistendo che Tel Aviv non può accettare che tregue temporanee (condizione che Hamas non può accogliere perché, una volta rilasciati gli ostaggi, non avrebbe più alcuna leva per costringere Israele a chiudere le ostilità).
Ma, nonostante la chiusura del premier, i suoi antagonisti lo hanno costretto a proseguire il negoziato, anche se le speranze che vadano in porto sono più labili di prima. Con il suo reciso niet, Netanyahu ha dimostrato di essere forte e che può resistere alle pressioni, sia esterne che interne.
La guerra a Gaza e il delirio
Il premier israeliano ha definito la proposta di Hamas “delirante”, così appaiono interessanti due articoli pubblicati in proposito da Haaretz e Washington Post, il primo a firma di Anshel Pfiffer e il secondo di Ishann Tharoor.
Così titola Haaretz: “Il ritornello di Netanyahu di combattere Hamas fino alla ‘vittoria totale’ è una fantasia”; così titola il Wp: “La ricerca delirante e mortale di Netanyahu della ‘vittoria totale’”.
Nel suo pezzo, Pfeffer spiega come Netanyahu non abbia mai dato una connotazione a tale vittoria totale, restando sempre sul vago. In questo Netanyahu riprende un cliché usuale delle guerre infinite, che sono tali proprio per l’indeterminatezza degli obiettivi.
Interessante un passaggio, nel quale Pfeffer ricorda che, commentando l’operazione militare, Netanyahu ha detto “stiamo distruggendo i [tunnel] sotterranei” e ciò “nonostante il fatto che alti ufficiali, a tutti i livelli. delle Forze di Difesa israeliane abbiano affermato per settimane che la rete di tunnel di Gaza è troppo vasto per una simile impresa” .
Concetto ripreso da Tharoor, il quale ha spiegato che “Hamas resta radicato. Le sua rete di tunnel è probabilmente troppo vasta e complessa perché Israele possa distruggerla completamente”, aggiungendo quanto affermato alcuni giorni fa dall’ex Capo di Stato Maggiore israeliano Gadi Eisenkot, che siede nel gabinetto di guerra: “Chiunque parli di la sconfitta totale [di Hamas a Gaza] e assicuri che non avrà né voglia né capacità [di danneggiare Israele], non dice la verità’”.
Obiettivo incerto e sfuggente, l’unica cosa certa è la macelleria a ritmo continuo che si consuma a Gaza, che prosegue a motivo del cinico delirio di cui è preda quella parte della leadership israeliana che si riconosce in Bibi Netanyahu, sul quale Pfeffer è lapidario: si crede Churchill, ma ciò che “non può accettare è che, nel suo cosplay della Seconda guerra mondiale, non è Winston Churchill, ma Neville Chamberlain, il triste pacificatore che Churchill sostituì otto mesi dopo l’inizio della guerra”.
“Tutti, tranne i bibisti più irriducibili, sanno l’inevitabile verità: che Netanyahu sarà ricordato per sempre nella storia come il peggior primo ministro d’Israele, colui che ha condotto il paese verso la più grande tragedia che abbia mai colpito lo Stato”. E come il triste esecutore di uno dei più gravi genocidi registrati dalla fine della Seconda guerra mondiale (secondo solo a quello del Ruanda, per ora).
La leadership israeliana che si nasconde dietro la sua ombra spera di scaricare su di lui tutte le responsabilità, rafforzandone la spinta a proseguire. La narrativa post-guerra potrebbe dargli ragione, ma il tribunale della storia, oltre quello dell’Aia. potrebbe dargli torto.