Gaza. L'ex capo del Mossad e la tregua duratura
Israele e Hamas hanno stabilito un nuovo cessate il fuoco per definire un nuovo scambio di prigionieri, mentre il capo del Mossad David Barnea e quello della Cia William Burns volano in Qatar per mettere a punto la lista dei prossimi ostaggi da liberare in cambio dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Il Qatar, quindi, continua a ospitare colloqui riservatissimi, ai quali partecipano in vario modo i capi di Hamas che risiedono a Doha, nei quali presumibilmente non si parla solo della sorte dei prigionieri.
L’ex capo del Mossad e le pressioni USA
Ne accennava l’ex capo del Mossad Efraim Halevi in un’intervista rilasciata il 23 novembre – giorno in cui si è fatto il primo accordo tra le parti – a Yediot Aeronoth: “Penso che questo accordo sia la prima fase e se questo processo di scambio di prigionieri verrà portato avanti fino alla fine, sarà molto più difficile riprendere la campagna militare fino al collasso di Hamas”.
“Penso che ci sarà una forte pressione da parte degli Stati Uniti per ottenere una moderazione e addirittura la fine dei combattimenti senza che Hamas crolli completamente come vorrebbe il primo ministro”. Ha aggiunto Halevi. “Non si tratta solo di un accordo relativo allo scambio di prigionieri, ma è anche un passo che rafforzerà l’intenzione di cercare di porre fine alla guerra.” Tuttavia, ha chiarito che “questo sia il miglior accordo che si possa ottenere in questa fase e che sia l’inizio di un processo per raggiungere ulteriori intese che riporteranno a casa la maggior parte, se non tutti i nostri ostaggi”.
Halevi, continua Ynet, sostiene che la pressione statunitense sarà formidabile: “Penso che Israele non possa resistere alla pressione americana. Anzitutto perché è il principale sostenitore di Israele nel mondo e il presidente Biden è forse il più grande amico che Israele ha avuto da anni e ha aiutato in modo significativo Israele nel trasferimento di armi durante la campagna”.
Questa la conclusione dell’ex capo dell’intelligence israeliana: “Bisogna tener conto anche degli interessi degli Stati Uniti, che hanno fatto molto per rafforzare Israele e la sua capacità di combattere. Mi piacerebbe moltissimo riuscire a far collassare Hamas in tutto il mondo, sarebbe molto importante se potessimo farlo”.
“Ma abbiamo dei partner e questi partner hanno opinioni che non possono essere ignorate. Gli Stati Uniti non intendono sostenere ciecamente tutti i desideri di Israele e penso che gli americani, anche in colloqui piuttosto significativi, abbiano chiarito che hanno qualcosa da dire su questi temi”.
Nel riferire la missione di Barnea e Burns in Qatar, il New York Times riporta: “Alcuni funzionari americani hanno espresso la speranza che la pausa temporanea possa essere estesa in qualcosa di simile a un cessate il fuoco più permanente”.
Fermare la guerra prima che dilaghi
A rafforzare quanto dichiarato da Halevi, l’annuncio che a breve Blinken si recherà nuovamente in visita in Israele e in Cisgiordania, oltre che negli Emirati Arabi Uniti e altrove. La sua missione dichiarata è portare a termine la liberazione di tutti gli ostaggi. Quella tacita si può intuire dalle parole dell’ex capo dell’intelligence israeliana.
Di interesse anche la conferenza stampa odierna del portavoce del ministero degli Esteri del Qatar, Majed Al-Ansari, il quale ha affermato: “La priorità attuale è il rilascio di ostaggi civili, donne e bambini, poi toccherà ai militari”. Parole che indicano una prospettiva prolungata e conclusiva riguardo la sorte di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas.
Ma serve conservare il realismo, anche perché le autorità israeliane continuano ad affermare che la campagna militare riprenderà e che non finirà finché Hamas non sarà eliminata dalla Striscia.
Resta, però, la possibilità che nel segreto si raggiunga un compromesso, sia sull’immediato sia sulle prospettive di un’eventuale/probabile ripresa delle ostilità. Tale compromesso potrebbe concretizzarsi con una ripresa modulata della campagna militare, con obiettivi definiti e a termine, in modo che il governo israeliano possa brandire la vittoria e l’esercito ripristinare la sua immagine di invincibilità, andata in frantumi nell’attacco del 7 ottobre.
Non è solo la pressione americana a forzare in tal senso, anche lo spettro di diventare un paria internazionale a causa della brutalità della campagna militare, oltre ai costi della guerra, che non sono del tutto secondari.
Le stime indicano che lo sforzo bellico costerà il 10% del Pil, mentre l’altro costo rilevante è quello delle vite umane. Haaretz ha rivelato che i soldati feriti sarebbero un migliaio, di cui 202 verserebbero in condizioni “critiche“. Più che probabile che anche il numero di caduti sia maggiore di quanto dichiarato ufficialmente, filmati e foto che girano nel web restano indicativi in tal senso.
Tutto sospeso, quindi, nell’attesa di quanto riserva il futuro. Oltre agli Stati Uniti, tanti i Paesi che stanno facendo pressioni affinché il cessate il fuoco divenga permanente.
Tra questi l’Iraq, che per bocca di Farhad Alaadin, consigliere per gli affari esteri del primo ministro Mohammed Shia, ha affermato: “L’intera regione è sull’orlo di un conflitto devastante che potrebbe coinvolgere tutti, una guerra che nessuno sa quanto possa espandersi né come sarà possibile controllarla e fermarla”.
Chiudiamo con un doveroso cenno alle condizioni disumane in cui versano i palestinesi nella Striscia. Così il titolo di un articolo al Jazeera: “A Gaza, stretta dall’assedio israeliano, le malattie potrebbero uccidere più delle bombe, afferma l’OMS”. Sottotitolo: “I sistemi sanitari e igienico-sanitari distrutti devono essere ripristinati”.