Gli Usa e la guerra di spie
Tempo di lettura: 2 minutiAlcuni giorni fa è rimbalzata sui media la notizia dell’arresto di Harold Thomas Martin, un contractor che lavorava per i servizi di informazione degli Stati Uniti, in realtà scoperto già nell’agosto scorso.
La vicenda ha riproposto il tema della facilità con la quale sono violati i sistemi informatici relativi alla sicurezza degli Stati Uniti, e ha fatto immaginare un altro caso Snowden, l’analista della Cia che rivelò al mondo il sistema di intercettazione globale, quanto illegale, messo a punto dalla Nsa.
Diversi i dati sensibili trafugati da Martin. Ma Debkafile, sito di informazione israeliano, ha rivelato tra l’altro che essi «includevano una riserva di codici per violare la crittografia, alcuni dei quali connessi agli sforzi degli Stati uniti di introdursi nei sistemi informatici di avversari informatici come Russia, Iran, Corea del Nord e Cina».
«Secondo alcune fonti ufficiali – prosegue Debka – la rivelazione di alcuni di questi codici potrebbe permettere ai bersagli dello spionaggio della Nsa di scoprire il modo in cui essi venivano violati e consentire ad alcune agenzie di spionaggio straniere di riutilizzare a loro volta tali sistemi».
Nota a margine. La notizia, oltre a rivelare il perdurare della vulnerabilità dei sistemi di sicurezza Usa, è utile anche per relativizzare le accuse che in modo paranoico in questi ultimi tempi sono state scagliate contro la Russia, alla quale esponenti politici di primo piano della politica americana ascrivono le ripetute violazioni di data base informatici statunitensi (vedi scandalo mailgate e altro).
In realtà, come si può vedere, il furto di dati sensibili tra le due potenze, e altre, è cosa usuale e partecipata. Fa parte del grande gioco geopolitico, e non da oggi.
Rimproverare alla Russia quel che sottotraccia fa anche l’America è alquanto ipocrita. O, più banalmente, futile propaganda politica. La virulenza con la quale negli Stati Uniti è praticato tale esercizio si può spiegare con il delicato momento che attraversano gli States, oltre alla pretesa di ascrivere a se stessi una sorta di immunità rispetto a tali giochi. Ma anche una malcelata frustrazione nel constatare i “successi” altrui rispetto ai propri.