Guerra all'Iran: spinte belliche e apparati frenanti
Tempo di lettura: 3 minuti“C’è aria di guerra”. Così Conor Friedersdorf su The Atlantic l’8 maggio. Già, gli Stati Uniti non sono mai stati tanto aggressivi.
È un riflesso condizionato: l’Impero che si è immaginato globale vede eroso il suo sogno egemonico che reputava irrevocabile. A minacciarlo l’ascesa economica della Cina e il ritorno della Russia come attore geopolitico primario.
Una situazione nuova che vede una lotta segreta nel cuore dell’Impero tra quanti, come Trump, vorrebbero gestirla ridisegnando un ordine mondiale con Cina e Russia che salvi la preminenza Usa e quanti vorrebbero semplicemente spezzare le reni agli impudenti sfidanti.
Un dialettica che non appare al mondo, al quale Washington mostra solo il suo volto minaccioso, che poi è quello di Trump.
Guerra di sanzioni e guerra vera
Gli Usa stanno approcciando il mondo con un’aggressività senza precedenti: Kathy Gilsinan, in un articolo pubblicato il 3 maggio su The Atlantic, scrive che gli Stati Uniti, “alla stesura di questo articolo, hanno promanato 7.967 sanzioni“. Alle quali vanno aggiunte le più recenti (due giorni fa quella sull’industria siderurgica iraniana).
Sanzioni che vanno a moltiplicarsi, se si considerano quelle che gli Stati clienti degli Usa hanno dovuto emanarne a loro volta su pressione di Washington.
Inoltre ci sono dazi, che poi rappresentano una variante delle sanzioni, come quelli comminati contro le merci cinesi; ma anche guerre, quelle passate e quelle presenti: in corso (Yemen) e minacciate (Venezuela e Iran).
“L’amministrazione Trump – scrive Friedersdorf su The Atlantic – sta pianificando la possibilità di un’azione militare in Venezuela, sostenendo tacitamente che l’autorità del presidente è sufficiente a condurre la guerra unilaterale, senza prima chiedere l’autorizzazione al Congresso”.
In un’audizione alla Commissione per le relazioni estere del Senato, continua The Atlantic, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha reso dichiarazioni simili riguardo l’Iran, “rifiutando di riconoscere che una guerra contro tale Paese non è legittimata dall’Autorizzazione all’uso della forza militare che il Congresso ha approvato nel 2001 in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre”.
Infine, ricordando il bombardamento americano in Siria del 14 aprile 2018, Friedersdorf rammenta come “Bolton fece pressioni per una risposta più ampia, che includeva una permanente presenza militare Usa nel Paese […] per contrastare l’Iran, non lo Stato islamico o il regime di Bashar al-Assad”.
Secondo Friedersdorf, il Congresso Usa si contrappone in maniera blanda a tali derive, riferendo come esemplare il commento del senatore repubblicano Lindsey Graham: “Non mi interessa votare sull’uso della forza”.
L’ossessione Iran
La guerra all’Iran, un tempo solo ossessione esoterica dei circoli neocon, rischia di incantare anche altri ambiti militar-finanziari-industriali che vedono erosa la leadership imperiale.
Tanti ritengono che, come la Seconda guerra mondiale consacrò gli Stati Uniti potenza egemone dell’Occidente (e progressivamente del mondo), un’altra guerra di portata catastrofica come quella iraniana possa conservargli tale preminenza nel XXI° secolo.
Per fortuna c’è chi teme la catastrofe e la contrasta. Significativo in tal senso il più che autorevole Economist, che in un tweet nel quale si presenta il nuovo numero del settimanale chiede di “riavviare i negoziati”.
Come accennato, non si tratta solo di una guerra esterna; il conflitto si svolge anzitutto nel cuore dell’Impero.
L’Agenzia stampa iraniana Fars, il 4 maggio, ha rivelato che alti ufficiali dell’esercito americano hanno contattato i loro omologhi iraniani per rassicurarli: non sarebbero in corso preparativi per una guerra.
Vedremo. Intanto, si può registrare che John Bolton ha dato il via all’escalation anti-iraniana subito dopo il mancato golpe in Venezuela.
Vecchia volpe: ha creato una nuova emergenza da dare in pasto ai media per evitare che indugiassero sul fiasco rimediato in Sud America.
Del quale Trump gli ha chiesto conto, lamentandosi peraltro della sua “posizione interventista” (Washington Post di ieri).