Di guerra ucraina e presidenziali USA
La Terza guerra mondiale, se sarà, “non sarà confinata all’Europa“. Così il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Cenno significativo perché tutti gli analisti e i politici americani per due anni, parlando del rischio di uno scontro su larga scala Nato-Russia, sia per allarmare sul punto sia per smentire tale possibilità, hanno sempre parlato di una guerra limitata al Vecchio Continente.
Dopo l’Ucraina, l’Europa: gli USA e le vittime sacrificali
Tale limitazione geografica da parte degli americani ha reso più spregiudicato il loro sostegno a Kiev, spingendoli ad alzare via via la posta in gioco e a oltrepassare le linee rosse segnalate da Mosca all’inizio del conflitto, e come tali accettate dagli sponsor dell’Ucraina, ultima delle quali in via temporale l’inviolabilità del territorio russo.
Infatti, uno scontro su larga scala nel Vecchio Continente potrebbe essere un prezzo che l’America sarebbe disposta a pagare per vincere lo scontro in atto, dal momento che la perdita degli alleati europei, che ne uscirebbero inceneriti, sarebbe largamente compensata dalla parallela distruzione della Russia, che riconsegnerebbe a Washington la perduta supremazia globale (isolata e priva della forza militare russa, la Cina sarebbe costretta a capitolare in breve tempo).
D’altronde, si tratterebbe solo di estendere su scala continentale la logica del conflitto in corso. All’Ucraina è stato assegnato il ruolo di vittima sacrificale, scagliandola contro la Russia in una guerra fino all’ultimo ucraino (Strana segnala che “gli uomini di età compresa tra 17 e 25 anni verranno automaticamente registrati per il servizio militare”: non verranno arruolati a forza, almeno per ora, ma potranno servire come volontari; senza la registrazione in questione, i ragazzi non potranno ricevere il passaporto…). La leadership occidentale potrebbe trasferire tale logica sacrificale all’intera Europa. Non avrebbe remore in tal senso, potendo contare su un futuro radioso oltreoceano.
Così l’avvertimento di Lavrov piuttosto che alzare i toni dello scontro verbale, che accompagna quello ben più sanguinoso del campo di battaglia, potrebbe servire a far rinsavire la leadership americana, anche se sperare sul punto è arduo, essendo ormai l’Impero dominato da una classe dirigente che vive e prospera di conflitti.
Il senso degli USA per la guerra
Sul punto un interessante articolo dell’ex senatore americano Ron Paul, secondo il quale i due partiti americani che si contendono il potere “sostengono lo stato di guerra/welfare. Entrambi perseguono politiche che portano a povertà e guerra invece che a pace e prosperità”. Anche se riferisce con certa enfasi il discorso di segno opposto col quale Robert F. Kennedy Junior ha abbandonato la corsa alla Casa Bianca per sostenere Trump.
“A giudicare dal discorso bellicoso e belligerante di ieri sera a Chicago – ha detto Kennedy Jr. riferendosi alla Convention democratica – possiamo supporre che il presidente [Kamala] Harris sarà un’entusiasta sostenitrice di questa [il riferimento è all’Ucraina, ndr] e di altre avventure militari neocon. Trump afferma che riaprirà i negoziati con il presidente Putin e porrà fine alla guerra in una notte, non appena sarà eletto presidente. Questo da solo giustificherebbe il mio sostegno alla sua campagna”.
Quindi, dopo aver liquidato, a ragione, come sciocchezze propagandistiche le parole della Harris sui suoi sforzi per la pace tra israeliani e palestinesi, Ron Paul ha ricordato che anche Trump, da presidente, ha imbarcato nella sua amministrazione personaggi come John Bolton e Mike Pompeo, alfieri delle bellicose politiche neocon.
“C’è sempre la possibilità che questi errori si ripetano. – conclude Ron Paul – E né Trump né RFK sembrano essere affidabili nel favorire la fine del massacro di Gaza. Quindi no, questo non è un “ticket per la pace”. Ma almeno con quello che abbiamo visto la scorsa settimana con RFK e Trump, abbiamo la sensazione che la pace sia nel menu. È un inizio”.
I neocon sostengono la Harris
A conferma delle prospettive che aprirebbe all’America una vittoria della Harris, il fatto che i più stretti collaboratori dei neocon repubblicani si siano schierati con lei. Così, il Washington Post: “Oltre 200 collaboratori di Bush, McCain e Romney sostengono la Harris”.
Ma Trump deve guardarsi anche dai neocon rimasti apparentemente con lui. Significativo, sul punto, il post su X dell’analista politico Rogan O’Handley (alias DC Draino): “Non dimenticare mai chi ha ucciso l’onda rossa nel 2022 [ha cioè frenato la spinta del partito repubblicano, ndr], Lindsey Graham. Voleva che i soldi per l’Ucraina continuassero a fluire […]. Voleva che le stelle nascenti del movimento MAGA fossero distrutte. Ecco perché ha introdotto un divieto federale sull’aborto […] prima delle elezioni di medio termine. Sapeva che avrebbe mobilitato i giovani elettori democratici. Non possiamo commettere lo stesso errore nel 2024″.
La posta è alta nelle presidenziali americane. Non è in gioco solo il destino dell’Impero, ma la sua proiezione sul mondo. All’America First di Trump, che ripropone l’isolazionismo, si contrappone l’altra America First, incarnata dalla sua competitor virtuale (ché la Harris è solo un vuoto involucro), quella del devastante unipolarismo muscolare.
Peraltro, c’è da considerare che, se Biden ha incarnato una presidenza assertiva, annunciata al suo esordio con lo slogan “l’America è tornata”, è pur vero che egli era parte di un’establishment che conservava un contatto pur residuale con la realtà, come ha dimostrato durante la guerra ucraina, nel corso della quale ha tentato di frenare le follie dei suoi, riuscendovi poco e male.
La Harris, dicevamo, è un vuoto involucro, marionetta che risponde in toto al partito della guerra, che ha in Hillary Clinton, non a caso tornata prepotentemente alla ribalta, il suo terminale politico nel partito democratico.
Significativo che, all’opposto, Tulsi Gabbard, che ha incarnato l’anima più pacifista del partito democratico, venendo spesso associata in maniera indebita alla Squad di Bernie Sanders, appoggi Trump.
L’offensiva nazista di Kursk
Quanto alla guerra ucraina, che pure merita un cenno, poco da segnalare oltre quanto già scritto: l’offensiva a Kursk è stata fermata, come anche il tentativo di sfondamento a Belgorod, e l’avanzata russa nel Donbass procede più velocemente di prima dell’attacco ucraino al territorio russo.
Si ripete un copione noto alla storia. Così Alastair Crooke: “‘Kursk’ ha una storia. Nel 1943, la Germania invase la Russia a Kursk per distogliere l’attenzione dalle proprie perdite, finendo per essere sconfitta nella battaglia di Kursk [il 23 agosto del ’43, ndr]. Il ritorno delle forze militari tedesche nei dintorni di Kursk deve aver lasciato molti a bocca aperta; l’attuale campo di battaglia attorno alla città di Sudzha è esattamente il punto in cui, nel 1943, la 38a e la 40a armata sovietica si prepararono per una controffensiva contro la 4a armata tedesca”.