I gulenisti e il processo di pace turco
Tempo di lettura: 3 minutiIl movimento Gulen sarebbe stato l’artefice del fallimento del processo di riconciliazione nazionale tra Ankara e i curdi: questa la tesi esposta in un articolo di Mahmut Bozarslan, giornalista che segue da anni l’intricata vicenda curda, pubblicato sul Al monitor il 17 agosto.
Fondato da Fetullah Gulen (oggi esule negli Stati Uniti), il movimento turco, sorta di movimento ecclesiale in salsa islamica, è oggetto di repressione da parte del governo, che lo ritiene protagonista del recente tentativo di colpo di Stato contro Recep Erdogan.
Bozarslan fonda la sua tesi sulla testimonianza dell’avvocato Muharrem Erbey, cinque anni in prigione per aver difeso la causa curda, il quale gli ha confidato che furono proprio i gulenisti a far fallire più volte la riconciliazione nazionale, causa di tante tragedie per l’Anatolia.
E ciò a partire dal 2009, quando allo scopo usò la forza della sua rete occulta, alla quale erano affiliate tante personalità pubbliche sia nella magistratura sia nella polizia: «La polizia e la magistratura gulenista ha deliberatamente preso di mira i curdi moderati per minare ogni prospettiva di una soluzione pacifica e screditare il governo».
Continuando a perseguitare i moderati durante le trattative, infatti, si dava spazio alle fazioni più oltranziste, che peraltro avevano buon gioco a denunciare il doppiogioco del governo.
Anche nel 2012, in occasione di un altro tentativo di approccio tra governo e curdi, un magistrato appartenente al movimento «tentò invano di mettere in discussione ed eventualmente arrestare funzionari dei servizi segreti di alto livello nel corso di incontri segreti con il Pkk [partito comunista curdo ndr.]».
La tesi di Erbey è confortata da Vahap Coskun, docente dell’Università Dicle di Diyarbakir, cuore turco della minoranza curda, che in quelle trattative ebbe ruolo di mediazione in qualità di saggio. «Utilizzando il suo peso nel sistema giudiziario e la polizia, la comunità Gulen ha cercato di annullare la politica del governo e non ha esitato a mobilitare tutta la sua potenza a tale scopo», ha rivelato Coskun ad al Monitor.
Le possibilità di riconciliazione tra Ankara e curdi sono definitivamente affondate nel 2015, a seguito di una decisione di Erdogan, preceduta dall’omicidio di due poliziotti. «Alcuni suggeriscono che dietro questo “incidente” ci sia la mano dei gulenisti», riferisce Bozarslan. Che ricorda come l’assassinio fu rivendicato e poi ritrattato dal Pkk (cosa insolita per un movimento uso a rivendicare le sue azioni).
La tesi è smentita dall’avvocato degli imputati di quel duplice assassinio, il quale è però convinto che «l’accusa contro quei ragazzi ha impedito di trovare i veri colpevoli».
Il processo di riconciliazione tra Ankara e il movimento curdo, secondo quanto ricostruisce al Monitor, sarebbe stato quindi affiancato dai gulenisti, alleati del governo, per essere affondato.
«Con l’arresto di figure moderate, speravano di alimentare la violenza e paralizzare gli sforzi di pace del governo – ha confidato ancora Erbey ad Al-Monitor. Tutti – l’Akp [il partito di Erdogan ndr.], il governo e anche l’uomo della strada – sapevano che la comunità [Gulen] aveva infiltrato la magistratura. Tutte le decisioni erano state prese congiuntamente dal governo e dalla comunità, ma a livello di attuazione, la polizia, i pubblici ministeri e giudici erano tutti elementi gulenisti».
La comunità Gulen, continua Erbey, «ha fatto molte cose in tandem con l’Akp, ma erano contro una soluzione» interna del problema curdo. Infatti, «l’approccio prevalente è stato quello di emarginare l’Akp a favore di una soluzione da ricercarsi attraverso la comunità [Gulen ndr.] e gli Stati Uniti».
Dal canto loro, i curdi, secondo l’avvocato, hanno avvertito da sempre che, se il problema non fosse stato risolto a livello nazionale, «avrebbero potuto entrare in gioco forze esterne e far assumere al problema una dimensione molto diversa».
Se la stretta indiscriminata su tale movimento operata dal governo dopo il fallito golpe resta comunque inaccettabile, questa associazione islamica, stando anche a quanto riportato da al Monitor, presenta aspetti alquanto oscuri.
Probabile non abbia giocato a suo favore la segretezza riguardo i suoi veri fini e i suoi affiliati, né la sua immensa ricchezza. I suoi membri, infatti, come rivela una testimonianza di uno di loro, Kerim Balci, riportata su Oasis nell’aprile del 2014, vengono aiutati a far carriera e sono chiamati a devolvere parte dei loro guadagni al movimento.
Movimento moderno, come spiega ancora Balci, che ha abbandonato le vecchie dottrine islamiche votate alla povertà (le quali insegnavano «che solo i poveri sarebbero stati ammessi al paradiso») per riconciliare islam e ricchezza.
Il braccio di ferro tra Erdogan e i gulenisti durerà tempo. Ma questa è solo una delle partite sulle quali si gioca il futuro della Turchia. Una delle quali è proprio il rapporto con i curdi, il cui ideale nazionalista è paventato da Ankara come minaccia all’integrità nazionale.
Difficile che l’esclusione dai giochi dei gulenisti possa rilanciare il processo di pace interrotto. Tante cose sono cambiate da allora e la lotta contro l’Isis ha guadagnato alla causa curda tanti alleati internazionali.
Alcuni sinceri, certo, altri invece più interessati a usare il loro nazionalismo per creare difficoltà ad Ankara.
Nonostante le incognite sul futuro, la ricostruzione dei reiterati fallimenti del processo di riconciliazione nazionale turco descritta da al Monitor è istruttiva. E apre a scenari ad oggi imprevedibili.