Il fallito attentato a Zelensky? Cosa loro...
Alcuni giorni fa, lo stesso giorno dell’insediamento di Putin, i media hanno annunciato che l’intelligence ucraina aveva sventato un attentato conto Zelensky e che i complottardi arrestati, due colonnelli della sua squadra di sicurezza, avevano agito in nome e per conto dello zar. Collegamento, quest’ultimo, che sarebbe stato confermato da confessioni e intercettazioni telefoniche.
Abbiamo già scritto che Mosca non c’entra nulla con il tentativo di eliminare Zelensky e che la notizia del complotto, sventato giorni prima, era stata data in quel giorno proprio per offuscare la cerimonia di inaugurazione della nuova presidenza di Putin.
Inutile ripetere i passaggi logici che escludevano la connessione moscovita, chi vuole può rileggere la nota, più utile riferire circostanze che confermano la pista interna. Subito dopo la rivelazione dell’attentato, infatti, è stato licenziato il capo della sicurezza di Zelensky, Sergiy Leonidovich Rud, ma cosa ancor più significativa, è stata formalizzata la nomina di Valery Zaluzhny ad ambasciatore della Gran Bretagna.
La destinazione londinese dell’ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito ucraino era stata annunciata dallo stesso Zelensky mesi fa, nel decreto in cui veniva sollevato dall’incarico di comandante in capo delle forze armate per sostituirlo con l’attuale, Aleksandr Sirskiy. Eppure, nonostante la formalizzazione dell’incarico fosse una pratica burocratica alquanto banale, non ha avuto seguito.
È noto che Zaluzhny era un rivale di Zelensky, anzi il più pericoloso rivale, essendo questi il referente reale dell’esercito ucraino, che vedevano nel suo pragmatismo un argine alla follia della dirigenza di Kiev, più interessata a compiacere i suoi sostenitori esteri che a stare alla realtà imposta dal campo di battaglia.
Tanto che spesso Zaluzhny si è messo in contrasto con il presidente, dando voce e forza alle lamentele dei generali, nel tentativo di arginarne le sue direttive impazzite che avevano come risultato di mandare al macello i soldati ucraini.
Il golpe di maggio contro Zelensky
Un contrasto che aveva anche un aspetto politico, dal momento che Zaluzhny veniva accreditato come possibile candidato alternativo alle presidenziali ucraine, che si sarebbero dovute tenere in questo mese.
Insomma, l’ex capo dell’esercito ucraino era il referente di tutto quell’ambito dell’esercito e della politica ucraina che vede nel burattino di Washington e Londra – e più Londra che Washington, ché l’America, è grande e divisa – un tragico becchino della propria patria. Un ambito che da tempo ribolle per sbarazzarsi del comico prestato alla politica.
La contemporaneità del licenziamento del capo del servizio scorta di Zelensky e dell’allontanamento di Zaluzhny da Kiev – che evidentemente aveva resistito con successo all’esilio forzato – non lasciano dubbi sui retroscena di quanto avvenuto, spacciato per complotto esterno per non rivelare le lotte intestine e il malcontento che agita l’Ucraina, segno di debolezza da non ostentare, e alimentare la narrativa anti-russa.
All’assassinio di Zelensky avrebbe dovuto far seguito un golpe dei militari, più o meno soft (variabile dipendente dalla forza dei golpisti), che avrebbe portato al governo lo stesso Zaluzhny o un’altra figura politica, ad esempio l’ex presidente Petro Poroshenko, oppositore pubblico del presidente.
I golpisti contavano sulla tempistica, scadendo a maggio il mandato di Zelensky e potendo quindi accreditarsi come difensori della democrazia a fronte di un presidente che aveva prolungato in maniera artificiosa il suo mandato, annullando le elezioni con motivazioni altrettanto artificiose.
Ma, soprattutto, potevano contare sul malcontento che sta dilagando in Ucraina, sia per l’andamento nefasto della guerra, con i russi che continuano a sfondare e con una resistenza sempre più vana, foriera solo di nuovi inutili lutti, sia anche a causa della nuova norma sulla mobilitazione massiva, che chiama alle armi, e forse alla morte, tanti che speravano di sfangarla.
Il placet americano
Più che probabile che i golpisti abbia goduto di collegamenti esterni, un placet più o meno tacito di alcuni ambiti americani – non tutti allineati alle follie neocon – perché in Ucraina non si muove foglia senza tale passaggio. Com’è certo che chi ha gestito finora Zelensky l’abbia aiutato a superare la criticità.
Probabile, ma non provabile, la liaison americana, certa, invece l’estraneità di Mosca, che al massimo avrebbe potuto rallegrarsi in caso di riuscita, dal momento che è meglio avere a che fare con un nazionalista irriducibile ma pragmatico come Zaluzhny che con le attuali autorità di Kiev, consegnate a una pericolosa follia.
La svolta avrebbe avuto riflessi sulla guerra in corso. Improbabile l’avvio subitaneo di negoziati, ma possibile un accordo sottotraccia perché i russi frenassero l’offensiva fino alle presidenziali Usa, per avviare le trattative subito dopo.
Un accordo che avrebbe preservato il partito democratico dagli imprevisti del conflitto. La loro paura non è tanto quella di una vittoria russa, che seppur possibile a breve è ancora improbabile, quanto di un successo eclatante, come ad esempio la resa in massa di uno o più battaglioni ucraini a seguito di un accerchiamento.
Se immagini o notizie simili facessero il giro del mondo, magari a ottobre, comprometterebbero non poco le chances di rielezione di Biden.
Ironia della storia: il partito della guerra americano (parte di esso), che da tempo si affida alle October surprise per far eleggere i propri candidati, ora deve sperare che il conflitto da loro alimentato con tanta cura non gli riservi analoghe sorprese.
Pericolo scampato per Zelensky. Non è il primo, non sarà l’ultimo. Tale il destino dei burattini, i cui fili possono essere recisi sia dai loro nemici che dai loro gestori, qualora non siano più utili.