Il Fmi e le trappole delle riforme strutturali
Tempo di lettura: 2 minutiForte è la pressione per le riforme strutturali che viene dall’estero, alla quale alcuni Paesi Ue meno forti, Italia e Grecia in primis, sono chiamati ad assoggettarsi per elemosinare qualche elargizione. Riccardo Franco Levi, in un fondo del Corriere della Sera del 28 aprile, spiega che nel recente World economic outlook reso pubblico dal Fondo monetario internazionale, invero in una parte ben nascosta del documento, si dà conto del risultato di alcuni studi sugli «effetti delle riforme strutturali sulla produttività totale dei fattori».
Così Levi sintetizza l’analisi del Fondo, opera di Olivier Blanchard: «La liberalizzazione dei mercati dei prodotti, cioè le riforme che tendono ad aumentare la concorrenza nella vendita dei beni e servizi, hanno sì, e specialmente nel settore dei servizi, un effetto positivo sulla produttività, ma solo nel lungo periodo, perché l’effetto a breve termine è negativo. Quanto alla deregolamentazione del mercato del lavoro, i suoi effetti sulla produttività sono esclusivamente negativi».
Nota a margine. Se queste cose le dice il Fondo, istituzione che è in prima fila quando si tratta di elargire prestiti in cambio di riforme strutturali (non solo alla Grecia), qualcosa evidentemente in questo meccanismo non quadra. Levi spiega appunto che se la richiesta di riforme in certe circostanze è legittima, resta che non esiste un unico modello da applicare in qualsiasi situazione e che se a un paziente debole si dà una cura troppo forte, «la cura rischia di farlo morire».
Qualsiasi riforma strutturale sia attuata in un Paese deve quindi essere preceduta da un’analisi attenta al particolare e da una seria verifica successiva. Cosa che troppo spesso si omette, con conseguenze disastrose.