Israele attacca, l'Iran minimizza. Forse si chiude qui
Ieri notte Israele ha colpito l’Iran con un attacco di droni nei pressi di Isfahan. L’obiettivo sembra sia stato un aeroporto militare, forse colpito. La zona ospita un impianto nucleare iraniano, vero obiettivo del raid, sul quale però gli aerei di Tsahal hanno evitato di infierire. Un’azione dimostrativa, nulla più. In questo hanno rispettato il monito iraniano di non colpire gli impianti nucleari, linea rossa che avrebbe innescato reazioni.
L’Iran minimizza, forse si chiude qui
L’Iran ha minimizzato. Significativo, in tal senso, il titolo del Timesofisrael: “L’Iran afferma che non è prevista alcuna ritorsione, perché entrambe le parti cercano di prendere le distanze dall’attacco su Isfahan”.
Questo l’incipit dell’articolo: “L’Iran non ha alcun piano di ritorsione immediata contro Israele, ha detto venerdì un alto funzionario iraniano, perché Gerusalemme ha comunicato che l’asserito attacco di droni su una città a sud di Teheran doveva inviare un segnale piuttosto che causare danni”.
“Il funzionario ha anche messo in dubbio che dietro l’attacco a Isfahan ci sia Israele, nonostante i commenti di alcuni politici israeliani che praticamente ne hanno rivendicato la responsabilità”.
L’ultimo riferimento è a Itamar Ben-Gvir, leader del partito ultraortodosso Otzma Yehudit e ministro della sicurezza nazionale, che ha reso esplicite le responsabilità del suo Paese, attirandosi le ire di altri politici israeliani perché ha violato l’ambiguità strategica del Paese, che spesso non rivendica le sue azioni. Ira incrementata dalla gravità del momento e dal danno che l’irresponsabilità di Ben Gvir potrebbe arrecare.
Da notare, en passant, che non ha trovato una reazione altrettanto sdegnata il suggerimento del ministro di uccidere i prigionieri palestinesi per ampliare le disponibilità delle carceri israeliane; “sarebbe una soluzione parziale alla crisi carceraria”, ha affermato… per la soluzione finale c’è ancora tempo, si potrebbe aggiungere.
Al di là della digressione, e per tornare a bomba (in senso letterale), “la limitata risposta iniziale all’attacco [iraniano] suggerisce che sia l’Iran che Israele vogliono evitare un’escalation“, titola il New York Times. Dove l’accento cade su quell’iniziale.
Il focus della questione, infatti, sta tutto qui: se Israele considererà soddisfatta in tal modo la sua sete di vendetta e ristabilita la deterrenza o meno. Al momento sembra che sia così, ma il malmostoso puzzle mediorientale lascia sempre aperta la finestra all’incertezza.
Israele: la cortina fumogena e le pressioni su Rafah
Riguardo il raid di ieri notte va segnalato che Israele aveva alzato una cortina fumogena previa, sia dichiarando che avrebbe avuto luogo dopo la Pasqua ebraica, sia facendo trapelare tramite media un presunto accordo con gli States di una rinuncia a rispondere all’Iran in cambio di un placet all’attacco su Rafah, l’ultima ridotta di Gaza.
Evidente, a posteriori, che l’annuncio del bombardamento post-pasquale serviva a riservarsi l’effetto sorpresa, mentre la seconda indiscrezione aveva, oltre questo, anche lo scopo di usare la tensione con l’Iran per tentare di aprire una finestra di opportunità per l’attacco su Rafah, osteggiato dagli Usa.
Non sembra gli sia andata bene. Questo il titolo di un articolo del Timesofisrael: “Gli Stati Uniti non sono convinti dei piani di Israele per Rafah dopo il secondo incontro”. Secondo il giornale, nel confronto online tra le parti, gli Usa avrebbero ribadito la loro avversione ai piani bellici proposti da Tel Aviv (condizionale d’obbligo).
Il raid in Iran è stato accompagnato da attacchi contro alcune postazioni difensive della martoriata Siria, da oltre un decennio vittima predestinata dell’Occidente – il regime-change prima e le durissime sanzioni poi – e di Israele.
Coincidenza ha voluto che, nello stesso giorno dei raid israeliani, l’Isis abbia fatto strage di soldati siriani: 22 le vittime (invece, non ha avuto esito la minaccia di un uomo che voleva attentare al consolato iraniano di Parigi).
Il niet Usa allo stato della Palestina
Nella giornata in cui sembra si siano attutite le tensioni Tel Aviv-Teheran, con gli Usa che probabilmente hanno mediato tra le parti non volendo una guerra regionale, si registra una giornata infausta per la Palestina, che aveva tentato la via del riconoscimento del suo status attraverso l’Onu.
Infatti, una mozione volta a riconoscere lo Stato palestinese e la sua adesione all’ecumene delle Nazione Unite è stata bloccata dal veto Usa. L’ennesima dimostrazione dell’ipocrisia di Washington e della distanza tra le belle parole e la brutalità della politica imperiale.
Come rivelato da un articolo di The Intercept, redatto in base a documenti riservati del Dipartimento di Stato, gli Usa avevano fatto pressioni su altri Stati perché votassero contro. Infatti, la mozione in questione necessitava di nove voti a favore al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per poter poi passare al vaglio dell’Assemblea generale (dove sarebbe stata sicuramente accolta).
Ma il pressing di Washington è andato a vuoto, tanto che la mozione ha raccolto 12 adesioni, così gli Stati Uniti hanno dovuto gettare la maschera e porre il veto. Scusa per tale nefando rigetto, che il massacro in corso rende ancor più nefasto, è che lo Stato palestinese dovrebbe nascere in un accordo con Israele (come se la nascita del Kosovo avesse dovuto essere legata a un placet di Belgrado).
E dovrebbe veder la luce insieme al compimento degli accordi di Abraham, che prevedono la normalizzazione dei rapporti tra Paesi arabi e Israele. Si ricordi che a settembre dello scorso anno, in un intervento alle Nazioni Unite sul fausto esito degli Accordi di Abraham, Netanyahu aveva mostrato una carta geografica nel quale la Palestina semplicemente non esisteva.
Fu uno dei fattori scatenanti l’attacco del 7 ottobre… Inutile aggiungere: la tragica ambiguità Usa, e le sue altrettanto tragiche conseguenze, si commentano da sole. Di interesse, la proposta di Hamas: disarmo totale in cambio della soluzione dei due Stati. L’ha rivelato il presidente turco Erdogan, ma cadrà nel vuoto. La pace, al momento, non interessa.