Israele, gli Usa puntano su Gallant
Ancora intenso il braccio di ferro in Israele, con le opposizioni interne al governo che fanno pressioni su Netanyahu perché non frapponga ostacoli alla proposta di Biden sul cessate il fuoco a Gaza e l’opposizione esterna, cioè Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid, che ha nuovamente dichiarato di esser disposto a sostenere l’esecutivo nel caso in cui venissero meno i partiti ultraortodossi (che si oppongono alla tregua).
Uno schema che si è ripetuto spesso in questi mesi di guerra, con Netanyahu che finora ha sempre preferito i suoi fondamentalisti di fiducia. Nello spiegare tale schema, in altre note abbiamo ripetuto che la pedina fondamentale della manovra Usa è il ministro della Difesa Yoav Gallant, che pur essendo partecipe dell’intransigenza della destra israeliana, si è però divincolato dalla stretta di Netanyahu sul Likud per fare asse con i dissidenti Benny Gantz e Gadi Eisenkot.
Israele, Gallant e il New York Times
Lo conferma, anche se in via dubitativa, un articolo odierno del New York Times (vedi foto di copertina) che ricorda: “Il mese scorso, Yoav Gallant ha detto agli israeliani che il primo ministro Benjamin Netanyahu stava portando la nazione fuori strada. Gallant […] lo ha accusato di aver fatto sì che la nazione scivolasse verso un’occupazione militare e civile di Gaza, che costerebbe a Israele ‘sangue e molte vittime, senza scopo’. Ha sfidato Netanyahu a escludere tale opzione”.
Non è la prima volta che Gallant ha sfidato pubblicamente Netanyahu, tanto che il Nyt ricorda quando lo fece al tempo dei moti contro la riforma giudiziaria. E annota come, ora come allora, “gli israeliani liberali hanno sperato che Gallant potesse essere un’ancora di salvezza per uscire dalla perdizione nazionale”.
Allo stesso tempo, però, il Nyt ricorda che finora Gallant è rimasto allineato e coperto rispetto a Netanyahu sulla guerra di Gaza. Ma, prosegue il media, “ora Israele si trova di fronte a una scelta difficile sul suo futuro e Gallant è destinato a svolgere un ruolo fondamentale nel percorso che intraprenderà”.
“Rappresenta una vera alternativa alla leadership populista che minaccia di trasformare Israele in uno stato paria, come è sembrato in questi momenti chiave? Oppure, come suggerisce anche il suo curriculum, rappresenta effettivamente lo status quo? Molti ebrei israeliani sperano che Gallant spinga Israele verso il percorso alternativo”.
Nell’articolo ricorda anche che presso il Tribunale penale internazionale è pendente un mandato di arresto contro di lui, in associazione a Netanyahu, per i massacri di Gaza.
In altra nota avevamo espresso perplessità sul mandato di cattura contro Gallant da parte della procura del TPI, perché non aggiunge nulla alla gravità dell’atto giudiziario, invece mina la possibilità che Gallant possa intraprendere un percorso alternativo a Netanyahu perché i loro destini si troverebbero associati. Non interessa il destino del politico, ovviamente, quanto la possibile tregua.
Quanto ai dubbi del Nyt sulle posizioni di Gallant, il media Usa non coglie il punto: quella del mese scorso non è la prima distinzione di Gallant da Netanyahu né l’ultima. In realtà, a suo modo e con un occhio al suo partito di destra, il Likud, sta facendo asse con Gantz ed Eisenkot.
Se finora non è venuto allo scoperto è solo perché la sponda offerta dagli Usa per un cambio di passo era debole. Verrà allo scoperto solo se e quando la vittoria sarà a portata di mano. A proposito, di ieri la telefonata tra il Segretario di Sato Usa Blinken e Gallant, che conferma tante cose.
L’escalation del Mar Rosso
Per quanto riguarda la guerra di Gaza, c’è da segnalare la svolta nel conflitto del Mar Rosso, che di essa è una propaggine nonostante l’Occidente abbia voluto in ogni modo distinguere le due crisi.
Gli Houti, infatti, hanno iniziato il blocco dello Stretto di Bab al-Mandeb per far pressione su Israele perché receda dalla mattanza della Striscia, mentre la distinzione in due conflitti separati serve all’Occidente per evitare che il loro intervento contro gli Houti sia associato, come infatti è, alla macelleria di Gaza.
Ma al di là del particolare, e per tornare all’escalation, essa si è registrata negli ultimi giorni. E tale escalation è iniziata quando l’Iran, il 29 maggio, ha fornito agli Houti i missili antinave Ghadr. Il giorno successivo l’aviazione anglosassone ha bombardato pesantemente lo Yemen, come non accadeva da tempo. E, successivamente, gli Houti hanno annunciato di aver colpito il cacciatorpediniere Gravely e, soprattutto, la portaerei Dwight Eisenhower, che sarebbe stata colpita nuovamente ieri.
Il Pentagono ha smentito seccamente che i colpi siano andati a bersaglio, mentre gli Houti parlano di danni “significativi” inflitti.
Non abbiamo elementi per confermare o smentire, mentre gli Usa smentirebbero anche se ci fossero danni – a meno di evidenza – troppo grande sarebbe lo smacco. Al di là del particolare, resta da capire perché l’Iran, con una mossa a sorpresa, abbia deciso di dotare gli Houti di missili potenzialmente in grado di infliggere danni alle più potenti macchine da guerra americane, su cui si fonda la loro proiezione globale.
Annotiamo una coincidenza temporale, l’annuncio iraniano è coinciso con la luce verde data dalla Casa Bianca a Kiev per colpire la Russia con armi Nato (in realtà, l’ok Usa è arrivato qualche ora prima, ma si tenga conto le intelligence sanno le cose in anticipo) e dopo l’attacco ai sistemi di allarme russo atti a rilevare un attacco atomico.
Coincidenze temporali che interpellano e che, se hanno un qualche senso, segnalano come non sia possibile violare le linee rosse altrui ed evitare conseguenze, sia nell’ambito più circoscritto dell’infrazione che nel più ampio agone globale in cui si dipana questa guerra mondiale fatta a pezzi. Tutto ciò evidenzia che urge tornare alla vecchia e sana politica del rispetto delle linee rosse prima che la situazione sfugga di mano.