Israele, la tregua che non arriva
Nulla di nuovo sul fronte mediorientale, dove proseguono i massacri e le trattative per chiudere la guerra vedono l’usuale fuoco di sbarramento di Israele. Hamas ieri ha fatto sapere che nel piano di pace di Biden non si prospetta una tregua duratura, sulla quale in effetti, benché dichiarata, resta certa ambiguità, mentre appare più che significativo il nuovo show dell’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite.
Onu: il piano “israeliano” a cui Israele si oppone
Gilad Erdan, solito a intemperanze, si opposto al piano che gli Stati Uniti hanno portato al Consiglio di Sicurezza per trovare sostegno, un piano peraltro connotato come “israeliano”.
Così sul Timesofisrael: “A spiegare il motivo dell’opposizione di Erdan, un funzionario della missione israeliana, il quale ha sottolineato che una versione aggiornata della risoluzione si riferisce all’accordo sugli ostaggi come a un’intesa che porterà ad un ‘cessate il fuoco’, diversamente dalla bozza originale che descriveva l’obiettivo finale come ‘cessazione delle ostilità’, che Israele interpreta come di natura meno permanente”.
Erdan ha sollevato altre obiezioni, poche in verità, ma il focus della sua opposizione sta tutta qua. Certo, come spiega il Timesofisrael, Israele non fa parte del Consiglio di Sicurezza, da cui quello di Erdan potrebbe sembrare solo un flatus vocis. Ma così non è. Netanyahu, attraverso il suo ambasciatore all’Onu, ha inteso dire che non accetta una pace duratura, condizione non negoziabile per Hamas.
Certo, l’amministrazione Biden non demorde, come dimostra l’invito a Benny Gantz di non lasciare il governo – decisione annunciata ieri – perché possa sostenere la trattativa dal di dentro, ma finora il presidente Usa ha perso tutti i confronti con Netanyahu.
E certo, c’è una spinta reale a chiudere, come dimostra anche la pubblicizzazione della strage compiuta dalle forze israeliane in una scuola dell’Agenzia dell’Onu per i palestinesi (oltre trenta le vittime), cosa inusuale, appunto, perché di stragi simili è fatta questa guerra, da cui la singolarità della risonanza che suggerisce la pressione succitata.
Aumentano le pressioni su Biden
Ma le pur tenui speranze iniziali, accese dall’annuncio urbi et orbi di Biden del piano di pace “israeliano”, si vanno affievolendo. Ma l’amministrazione Biden deve chiudere la guerra, ne va della rielezione (almeno a stare all’oggi).
Lo segnala anche la dichiarazione della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) a Biden perché cessi di sostenere Israele. Riportiamo dal New York Times: “La NAACP, la più grande e antica associazione per i diritti civili della nazione, ha chiesto giovedì al presidente Biden di ‘tracciare una linea rossa’ e di fermare le spedizioni di armi a Israele a causa del crescente numero di vittime civili nella guerra a Gaza”.
Questo il sottotitolo del Nyt: “L’annuncio aumenta la pressione che il presidente sta subendo sulla questione da parte dei leader della comunità afroamericana, un gruppo fondamentale per la sua rielezione”. Bizzarro, la lettera al presidente, invero molto interessante, era stata pubblicata sul sito della NAACP, ma cercandola successivamente non si trova (forse un problema momentaneo, rimandiamo ai lettori, del caso, una verifica ulteriore).
In attesa, si segnala la visita del Segretario di Stato Tony Blinken, che sbarcherà in Israele lunedì prossimo, viaggio che la dice lunga sul braccio di ferro intrapreso da Tel Aviv con l’amministrazione Biden e sulle difficoltà dei negoziati.
Nel frattempo proseguono i massacri quotidiani, che si sommano alla carestia (anche se non conclamata, dilaga), alla mancanza di acqua potabile, alla devastazione delle strutture sanitarie, alle malattie (tra l’altro, all’epatite si è aggiunta un’epidemia di colera). Oltre 36mila i morti dichiarati, ma sotto le macerie e di non registrati ce ne sono ancora tanti. E oltre 15mila i bambini uccisi.
E l’operazione “limitata” a Rafah prosegue implacabile. Ma sulla sua “limitazione” è istruttivo quanto scriveva Haaretz alcuni giorni fa: “Sebbene l’incursione di terra sia stata descritta come ‘limitata’, in pratica si tratta di un’operazione in profondità, con uno schema di distruzione simile a quello visto in altre città della Striscia di Gaza durante le prime fasi della guerra”.
Intanto è stata fissata la data in cui Netanyahu si recherà negli Stati Uniti a parlare al Congresso, dal quale gli è arrivato un invito bipartisan. Date le pulsioni per iniziare una guerra contro Hezbollah, che sarebbe troppo impegnativa per la sola Tel Aviv, Netanyahu deve trascinare anche gli Usa con sé. Potrebbe essere quella l’occasione giusta, se preceduta da un incidente significativo sul confine libanese. Vedremo.