Italia: il collasso della Politica e la profezia di Moro
Tempo di lettura: 5 minuti“Sia Salvini che Conte non riescono proprio a ficcarsi nella testa che mettersi contro l’establishment, nazionale ed europeo, non poteva non condurre ad aprire qualche armadio e buttare all’aria i vari scheletri”. Inizia così una nota di Dagospia dedicata alle inchieste giudiziarie (caso Morisi, caso Di Donna) che stanno tirando giù i due leader politici.
Operazione che sembra riuscita con Salvini e con prospettive di riuscita per Conte. Dago aggiunge che si credevano onnipotenti, ma erano solo burattini che i burattinai ora buttano nel cestino della storia.
In realtà la storia dei due è diversa, e la realtà più complessa, come indica la crisi innescata da Salvini, quando tentò di buttare giù il governo gialloverde nell’idea di andare alle urne e prendersi tutto, ipotesi naufragata a causa dell’accordo che diede il “la” al cosiddetto governo giallorosso.
Allora a stoppare Salvini fu Trump, che tutti i giornali indicavano come referente dei populisti, di cui Salvini sarebbe stato il leader italiano. Fu il tweet del presidente americano, infatti, il famoso “sto con Giuseppi”, che fece naufragare la prospettiva aperta dal leader della Lega. Insomma, l’asse Salvini-Conte appartiene alle narrazioni semplicistiche.
E però è vero che Salvini e Conte diedero vita al governo gialloverde, che l’establishment recepì come una scortesia, il quale, nato sotto un nefasto auspicio (il crollo del ponte Morandi), ebbe un decorso faticoso fino al suo surreale epilogo.
Ma a quanto pare, non sono solo Salvini e Conte ad attraversare acque tempestose, dato che anche Fratelli d’Italia è finito nella bufera, piccolo segnale che anche questa forza politica, che sembrava proiettata a governare l’Italia, deve limitare i sogni di gloria. Un Processo che si è dato anche nel partito democratico, ma in maniera più silenziosa, con cambi di guardia mirati e rottamazioni permanenti.
Quel che sta avvenendo, ricorda quanto avvenne nel ’92, quando una tempesta si abbatté sulla politica italiana, incenerendola, anche se lo tsunami di allora si ripete in farsa, cioè con una limatina, ché tanto basta a smussare gli angoli della politica italiana ancora non del tutto in linea con i dettati del sistema internazionale, che percepisce anche deviazioni minime dai suoi dogmi come sfide esistenziali.
Smussare gli angoli della Politica
Normali vicissitudini della storia. La variabile Trump ha lasciato la Casa Bianca e l’establishment internazionale mette un po’ d’ordine nella colonia, cosa che finché l’Italia è rimasta una Repubblica indipendente, sebbene a sovranità limitata, non si dava, da cui la continuità di governo del Dopoguerra italiano, durato oltre quarant’anni.
Un governo binario, fondato sull’asse dei due partiti popolari Dc-Pci, che godeva dell’appoggio altalenante dei circoli imprenditoriali, finanziari e culturali italiani (con punte di feroce avversione).
La fine di tale asse, che ha avuto nel ’92 il suo redde rationem – devastante nella Dc, silenzioso nel Pci – e nella strage di Capaci, dove furono uccisi Falcone e la sua scorta, il suo momento simbolico, ha dato vita a una lunga e sanguinosa transizione, conclusasi con l’insediamento del governo Draghi.
Al di là della persona, l’uomo è simbolo della nuova sovranità del nostro Paese, una sovranità subordinata che assegna al Primo ministro un ruolo da viceré, dal momento che regna in nome e per conto dei nuovi padroni dell’Impero americano e dei vecchi e sclerotici poteri della cosiddetta Unione europea.
Il viceré, in quanto tale, non ha margini di manovra per quanto riguarda la proiezione estera del nostro Paese, che nel dopoguerra aveva assunto un ruolo di primo piano nel Mediterraneo e nel mondo grazie alla capacità del suo governo (cioè dell’asse Dc-Pci) di parlare con russi e americani, ebrei e arabi, ponendosi spesso come tramite nei loro conflitti; e grazie alla Chiesa, che comunque aveva un ruolo rilevante nel mondo, ormai residuale, che accresceva il peso di tale governo (anche, cioè, delle forze che non facevano riferimento a essa).
Questo il nuovo status italiano e il peso specifico del nostro viceré, che può essere misurato dall’eco che ha avuto il suo annuncio del G-20 straordinario sull’Afghanistan (ignorato dai media internazionali nonostante si tratti di un tema cruciale della politica internazionale, neanche fosse il premier del Burkina Faso).
Ciò non vuol dire che il nostro viceré non possa assurgere a una dimensione internazionale, come d’altronde gli è capitato ai tempi della reggenza della Bce, ma solo e soltanto quando si muova in sintonia con i poteri che gli hanno conferito la carica, potendo al massimo usare gli spazi di manovra che si aprissero in una vera dialettica tra Ue e Usa, forse in aumento dopo il caso dei sommergibili atomici australiani.
Resta da vedere se la lotta per il Quirinale, vedrà il viceré vincente o meno. Cresce, infatti, la spinta per trattenerlo a Palazzo Chigi, cioè per toglierlo da quella corsa che, se evitava il passaggio politico, gli era forse più facile.
Il fatto che i media e la politica pongano domande sulla sua ipotesi quirinalizia indica che la strada non è spianata come sembrava in partenza, anche se non è detto che le alternative siano migliori.
Ma al di là del destino di Draghi, resta la derelitta Italia, che ai flagelli pandemici ed economici vede sommarsi quelli di una classe politica inerme o fantasmatica, quando non consegnata ai poteri internazionali, incapace e/o impossibilitata ad agire per porre argini al declino del Paese o che rema attivamente in tal senso (vedi alla voce Renzi, non per nulla decisivo nell’ascesa del viceré e sempre in Prima linea sui media nonostante rappresenti, in termini di voti, se stesso).
La profezia di Moro
Tale il portato del ’68, che ha avuto nel ’78, l’omicidio Moro, il primo grande successo di una rivoluzione colorata ormai vittoriosa.
Tanti sinceri analisti che tentano di porre domande su quanto sta avvenendo, a volte cadendo nel complottismo, parlano di reset, di nuovo potere autoritario e altro, senza accorgersi che non c’è nulla di nuovo: è solo l’emersione potente e prepotente di qualcosa di feroce iniziato tempo fa, rimasto invisibile ai più per anni, e che si palesa in tutto il suo fulgore.
Qualcosa che la politica del tempo che fu conosceva molto bene e aveva pronosticato. Così riportiamo un passo del memoriale Moro che, letto oggi, appare più profetico che mai.
“Io fui a colazione da Volpe [ambasciatore Usa in Italia ndr.] una sola volta in compagnia del Segretario Generale Amb. Gaja per una breve, generica ed inconcludente conversazione. Seppi poi, ed il fenomeno divenne sempre più vistoso, che non mancarono all’Ambasciata occasioni d’incontro politico-mondano, al quale peraltro, senza alcun mio dispiacere, non venivo invitato”.
“Si trattava di questo, per quel che ho capito, di una direttiva cioè del Segretario di Stato Kissinger, il quale per realismo continuava a puntare sulla D.C., ma su di una [D.C. ndr] nuova, giovane, tecnologicamente attrezzata e non più su quella tradizionale e non sofisticata alla quale io appartenevo”.
“Cominciarono a frequentare sistematicamente l’ambasciata giovani parlamentari (io so, ad es., di Borruso e Segni; ma immagino che il De Carolis, Rossi ed altri fossero volentieri accettati). Insomma si ebbe qui, non per iniziativa dell’Ambasciatore, ma dello stesso Dipartimento di Stato, un mutamento di rapporti, che prefigurava un’Italia tecnocratica, che tra l’altro parla l’inglese, più omogenea ad un mondo più sofisticato e, per così dire, più internazionale che si era andato profilando”.
Tutto previsto, dunque, dove alla D.C., allora partito Stato, si è sostituito un potere altro, solo più apparentemente frastagliato, in realtà molto più monolitico.
Così concludiamo con una nota di Rino Formica: “La crisi dei partiti ha investito le istituzioni, ed è una crisi che si vorrebbe risolvere dicendo che non c’è più destra e sinistra ma c’è l’istituzione. Questo porta a una novità: le istituzioni si fanno partito politico. Lo stato diventa partito” (Domani, ripreso da Dagospia). Dove per Stato si intenda la tecnocrazia fatta ormai istituzione.