Kamala Harris, la candidata delle guerra infinite
L’endorsement di Dick Cheney per Kamala Harris ha un alto valore simbolico. I neocon, infatti, riconoscono nella candidata democratica il presidente che perpetuerà le guerre infinite conservando il sogno, un incubo per il resto del mondo, di un ritorno all’unipolarismo Usa, che tale politica estera distruttiva dovrebbe conseguire.
Cheney e il partito delle guerre infinite che vota Kamala
Non un fulmine a ciel sereno quello del vicepresidente di George W. Bush, dal momento che il senso dei neoconservatori per Kamala era nei fatti e ne avevamo scritto già quando centinaia di collaboratori di Bush, McCain e Romney manifestarono la loro preferenza per l’ex magistrato prestato alla politica.
D’altronde anche il modo con cui Kamala è stata candidata alla Casa Bianca partecipa del senso dei neocon per la democrazia, che la loro agenda prevede che sia esportata a suon di bombe.
Cheney fu attore protagonista del golpe con cui i neocon presero il potere imperiale nel post 11 settembre, riducendo Bush a un ruolo fantasmatico. Una dinamica che si è ripetuta con l’estromissione di Biden dalla corsa presidenziale – ridotto anch’egli a un fantasma – e l’innalzamento sugli scudi della signora di casta braminica, la più alta e sacra casta indù.
In tal modo i neocon tornano al loro brodo di coltura originario, essendo nati a sinistra – la sinistra progressiva americana, tutt’altra da quella europea – per poi confluire nel partito repubblicano, nel quale hanno portato l’idea di rivoluzione, snaturando quello che un tempo era un partito conservatore, avverso quindi a tale opzione.
Un ventennio (e più) di tragedie
Applicata alla politica estera, l’idea rivoluzionaria ha portato ai disastri che sono sotto gli occhi di tutti, con il mondo costretto a entrare nei ristretti orizzonti delle fumisterie neocon a suon di bombe, anche se con esiti diversi da quelli da essi sperati.
L’idea rivoluzionaria è tutt’uno con la formazione idealista di tale movimento, che non tiene in nessun conto la realtà, essendo questa qualcosa da modellare e superare per creare l’ordine nuovo, come da frase didascalica attribuita al consigliere principe di George W. Bush, Karl Rove: “Ora siamo un impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà“. Nulla a che vedere con il realismo e il pragmatismo proprio del Grand Old Party, incarnato in maniera esemplare in Henry Kissinger.
Non che i repubblicani fossero una compagnia di buontemponi prima di conoscere l’egemonia neocon, basta stare alla storia alquanto sanguinaria dello stesso Kissinger. La differenza è che il realismo politico di quest’ultimo riconosceva dei limiti all’agire della superpotenza, a tutti i livelli, e conosceva l’arte del compromesso. I neocon non riconoscono alcun limite alla politica estera americana e aborrono la sola idea di compromesso.
Per usare un facile esempio, l’idea di un conflitto globale, che rientra nelle opzioni neocon, non era neanche nell’orizzonte più lontano di Ronald Reagan. Semplicemente non apparteneva al novero delle possibilità (nonostante il pericolo sia esistito anche al tempo della Guerra Fredda).
In altra sede abbiamo annotato come l’idealismo rivoluzionario neocon sia perfettamente sovrapponibile all’interventismo liberale di genesi wilsoniana che innerva il partito democratico, sul quale aveva allarmato il presidente John Quincy Adams, secondo il quale era tragicamente errata una politica basata sul “cercare mostri da distruggere”. Inutile, quindi, ripetersi in questa nota.
Così, se la prospettiva in politica estera di una presidenza Harris è quella di perpetuare – e incrementare dato che, a causa della sua evanescenza, verrà gestita in toto dai neocon-liberal – le guerre infinite, che si accompagnano alle rivoluzioni colorate, c’è da chiedersi quale potrebbe essere quella di Trump.
Inutile ribadire che l’America First attualizza l’isolazionismo americano, più interessante è che tale isolazionismo è in netto contrasto con la prospettiva delle guerre infinite. Non solo, l’orizzonte in cui si muove è quello di un accordo globale tra potenze. Lo ha detto implicitamente Trump il 20 luglio: “Putin e Xi sono smart […] amano il loro Paese”.
Sinteticamente tale dichiarazione va a ribadire l’idea base che dipanò durante la sua presidenza, quella di trovare un accordo con Russia e Cina per ristabilire un equilibrio nel mondo impazzito prodotto dall’egemonia neocon – liberal (vedi Piccolenote 14 maggio 2019).
Si tratta, cioè, di dar vita a una nuova Yalta, che tracci linee rosse al modo di quelle che avevano evitato alla Guerra Fredda di sfociare in una guerra termonucleare. Nonostante i toni roboanti, Trump provò in tutti i modi a realizzare tale disegno nei quattro anni passati alla Casa Bianca, ma ogni volta che faceva un passo distensivo verso una delle due superpotenze veniva stoppato da qualche incidente di percorso innescato dai suoi nemici interni.
A esplicitare che è proprio questa la prospettiva verso la quale si muove Trump è stata, in opposizione, la solita loquace ex tuttofare del Dipartimento di Stato Victoria Nuland, la quale, agli inizi di settembre, in un’intervista rilasciata al giornalista russo Mikhail Zygar ha dichiarato: “In nessun caso gli Stati Uniti firmeranno un nuovo accordo di ‘Yalta’ con Russia e Cina, un accordo su un nuovo ordine mondiale” (così nella sintesi pubblicata su Strana).
Tale prospettiva è apparentemente in conflitto con la visione di Cina e Russia che lavorano per incrementare e consolidare il multipolarismo, ma resta che un’America isolazionista si incastra bene in tale cornice e che le linee rosse di cui sopra sono da stabilire in un compromesso simile a quello che creò il mondo di Yalta. Ma il compito che si è assegnato Trump resta arduo, sempre se riuscirà ad arrivare alle elezioni e a vincerle.
Su tale prospettiva, un corollario: la leadership della Ue, all’epoca della disfida Trump-Clinton e durante la sua presidenza, contrastò in ogni modo l’idea di una nuova Yalta. A parte quanti vi si opponevano per fede neocon o liberal, tanti di essi la rigettavano sinceramente perché sembrava mettere in ombra il Vecchio Continente, non ammesso neanche come osservatore al tavolo della nuova Yalta. Tale prospettiva, cioè, erano convinti, avrebbe portato al declino della Ue.
Per una eterogenesi dei fini che si poteva intuire fin da allora, la prospettiva opposta non era quella irenica immaginata dalla casta Ue, che si illudeva di partecipare al banchetto unipolare. L’affermazione, con Biden, dell’interventismo liberale ha infatti incenerito il Vecchio Continente consegnandolo a una dispendiosa, lacerante e logorante guerra senza fine a rischio di allargamento continentale e globale.
L’unipolarismo non conosce alleati né partner, ma servi sacrificabili alla bisogna, come dimostra la guerra per procura ucraina, che ha incenerito una nazione e ne ha decimato la popolazione. Inoltre, la casta Ue non sembra tenere in debita considerazione il fatto che tale opzione ricomprende nel suo orizzonte la guerra globale, particolare che la dice lunga sulla sua lucidità e lungimiranza.