9 Maggio 2022

La celebrazioni in Russia e la morte di Moro

La celebrazioni in Russia e la morte di Moro
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Sulle celebrazioni per la vittoria sul nazismo da parte di Putin si erano fatte previsioni catastrofiche. Così, ad esempio, allarmava la Reuters: “Putin invierà un avviso del ‘giorno del giudizio’ all’Occidente durante la parata della vittoria della Russia nella seconda guerra mondiale”. Si temeva, cioè, che annunciasse l’escalation.

Nulla di ciò è accaduto, il suo discorso ha seguito linee banali: la rivendicazione della legittimità dell’operazione militare in Ucraina (che non poteva non fare, a meno che qualcuno si aspettasse che dicesse: “scusate ho sbagliato…”); quindi che l’invasione è stata effettuata per evitare un attacco al Donbass, motivazione che circola da tempo suscitando controversie; infine, che la Russia voleva un accordo che evitasse tutto ciò, ma che la Nato non ha voluto saperne.

Sull’ultimo punto, in un articolo di Resonsible Statecraft viene esaminato il dialogo Usa – Russia che ha preceduto di poco l’invasione e che di fatto l’ha scatenata. Una nota che ricorda come la preoccupazione principale di Mosca, emersa con forza in quel botta e risposta, sia stata snobbata dall’America. E ciò nonostante gli Stai Uniti fossero ben consapevoli che si trattava di un tema sensibilissimo (esistenziale, cioè di vita o di morte) per la controparte.

Riguardo ciò, RS riferisce una nota inviata da William Burns – allora ambasciatore a Mosca, oggi a capo della Cia – al Dipartimento di Stato: “L’ingresso dell’Ucraina nella NATO è la più acuta linea rossa percepita da tutti gli esponenti dell’élite russa (non solo Putin). In più di due anni e mezzo di conversazioni con le principali figure russe… devo ancora trovare qualcuno che veda l’Ucraina nella NATO come qualcosa di diverso da una sfida diretta agli interessi della Russia”.

Insomma, al di là delle controversie del caso, qualcosa si poteva fare per evitare la guerra, come qualcosa si può ancora fare per farla finire se si evitano estremismi (come ad esempio, individuare una deadline nella sconfitta della Russia).

C’è stata controversia su un’asserita apertura di Zelensky, che in un’intervista al Think Tank Chatham House avrebbe detto di essere disponibile a lasciare la Crimea ai russi pur di ottenere la pace.

Tale apertura è stata riferita da tanti media, ma qualche zelante cronista di Open l’ha negata, riproponendo la trascrizione esatta delle parole di Zelensky, il quale ha affermato che per iniziare a trattare con la Russia, “il passo dovrebbe essere il ripristino della situazione a partire dal 23 febbraio”, ritirando cioè le truppe dai territori occupati dall’inizio dell’invasione.

In realtà, l’apertura era nei fatti, come hanno compreso un po’ tutti, perchè la Crimea era già sotto il controllo russa. E la dichiarazione postuma di Stoltenberg, il quale ha affermato che la Nato non avrebbe mai accettato l’annessione della Crimea alla Russia, lo sta a dimostrare.

Con quella dichiarazione, fatta senza alcuna altra sollecitazione che non l’intervista in questione, il Segretario generale della Nato intendeva chiudere l’apertura implicita nelle parole di Zelensky (e l’articolo di Open, più che chiarire le parole del presidente ucraino, sembra voler appianare l’evidente divergenza, per nascondere il diktat della Nato).

A meno che, ovviamente, non si ritenga il Segretario della Nato incapace di intendere e di volere, anche lui ha capito l’implicita apertura di Zelensky, e ha voluto correggere il tiro.

Nel riferire l’intervista di Zelensky, Dagospia annunciava: “Fermi tutti, il vento a Washington è cambiato: su suggerimento di Washington Zelensky apre alla pace”. Quadro che sembra più che ipotizzabile, dal momento che il presidente ucraino non muove un passo né dice una parole senza prima aver consultato i suoi superiori.

A rafforzare questa ipotesi, quanto avvenuto nei giorni precedenti, quando, a distanza di un giorno l’una dall’altra, i più importanti media americani hanno pubblicato rivelazioni incendiarie sull’ausilio Usa agli ucraini, utilizzato per uccidere i generali russi e affondare la Moskva.

Rivelazioni incendiarie, probabilmente mirate a bruciare dei ponti che si stavano costruendo. E che hanno reso “furibondo” Biden, come spiegava Thomas Friedman sul New York Times.

Il cronista americano spiegava che la furia (che ha spinto il presidente a fare una lavata di capo ai capi delle Agenzie di intelligence Usa) nasceva dalla necessità di tenere gli Usa fuori da un ingaggio diretto con la Russia. Ma forse c’era anche altro, un qualche dialogo sottotraccia che quelle rivelazioni hanno bruciato.

Una circostanza che sembra confermata con l’avvenuta evacuazione dei civili dalle acciaierie di Mariupol e che potrebbe trovare ulteriore conferma da quanto avvenuto per l’Admiral Makarov, la nave russa che sarebbe stata colpita, forse affondata, dagli ucraini poco dopo la rivelazione sul ruolo Usa nell’affondamento della Moskva.

Una notizia esplosiva, che però, dopo l’annuncio ucraino, è stata derubricata a secondaria e obliterata dai media occidentali, evidentemente in un evidente accordo con i russi, i quali non l’hanno data. Un accordo per evitare escalation o forse altro.

Questo “altro” potrebbe essere appunto l’apertura di una qualche trattativa per aprire le porte a un negoziato. Una decisione presa da qualche ambito americano meno bellicoso (leggi Biden), con subitanea presa di distanza, e affondamento, da parte dei circoli atlantisti ai quali ha dato voce Stoltenberg (per inciso, Mario Draghi sarà il primo leader italiano a ricevere il premio Atlantic Council, ma de minimis non curat praetor).

È ovvio che chiedere indietro la Crimea equivale a un guerra a oltranza, ché i russi non cederanno mai sul punto. Questa la gravità della dichiarazione di Stoltenberg, il quale non si sa bene a che titolo parli, dal momento che non ha nessun incarico politico, è solo a capo di un organismo di difesa. Sembra di essere tornati ai tempi della decadenza dell’impero romano, con un generale che si arroga il potere di decidere della pace o della guerra a nome dell’impero… Tant’è.

Quarantaquattro anni fa, il ritrovamento del corpo di Moro, avvenuto nell’anniversario della caduta di Berlino, secondo l’orario di Mosca che per prima raggiunse la capitale del nazismo.

Non avremmo fatto ulteriori cenni a questa triste vicenda, ma il fatto che Marco Bellocchio, dopo il suo più che dimenticabile “Buongiorno notte“, torni sul tema con una serie, infastidisce quanti nutrono devozione verso quell’integerrima figura di politico e di cattolico, perché il regista accreditava – e si presume accrediterà – acriticamente la versione dei brigatisti cosiddetti pentiti, considerati inaffidabili ormai anche nelle inchieste ufficiali.

Asseriti pentiti le cui dichiarazioni furono e sono strumentali a un disegno ben preciso: screditare ulteriormente l’Italia di allora (che hanno combattuto con ferocia), alleviare le loro terribili responsabilità, ma soprattutto nascondere quanto realmente accaduto.

Sulla morte di Moro riportiamo quanto scriveva Mino Pecorelli, cronista di un’Italia che fu e che aveva ben altra lucidità dell’attuale: “Ancora una volta la logica di Yalta è passata sulle teste delle potenze minori, È Yalta che ha deciso via Mario Fani” (la citazione più estesa in Piccolenote).