La Cina reagisce alla visita della Pelosi a Taiwan
Tempo di lettura: 4 minutiLa Cina non ha invaso Taiwan, com’era ovvio, a seguito della visita incendiaria della Pelosi sull’isola, ma ha dato avvio a massive esercitazioni militari avvolgenti, che stanno mettendo Taipei sotto stress.
Un’esibizione di muscoli, poco altro in realtà, almeno al momento, necessitata dagli eventi: avendo Pechino ammonito di serie conseguenze per la violazione dell’accordo con gli Stati Uniti riguardo Taiwan, non poteva che essere conseguente.
Le ritorsioni di Pechino alle provocazioni della Pelosi
Pechino ha annunciato anche una serie di prime ritorsioni, sia contro l’isola che contro gli Stati Uniti. Al momento sembra che la misura più forte contro Taipei sia la sospensione dell’esportazione di sabbia.
Una misura, in realtà, alquanto blanda: colpirebbe l’edilizia, ma probabilmente non toccherebbe l’industria del microchip, dei quali Taiwan ha quasi il monopolio nel mondo (sembra che di silicio per questi prodotti ne abbia in abbondanza, ma è da verificare).
Verso gli Stati Uniti, invece, sono stati interrotti i canali di comunicazione militari regionali, risparmiando però quelli più alti; chiusi o sospesi i meccanismi di coordinamento su immigrazione e criminalità e terminata la cooperazione sul clima.
Una misura, quest’ultima, che disvela la natura solo simbolica delle ritorsioni, almeno al momento, evidenziata anche dalle sanzioni ad personam contro la Pelosi (sembra che Pechino tenga presente che si trattava di un’iniziativa personale della speaker della Camera, che ha suscitato irritazione anche oltreoceano).
Il viaggio della Pelosi ha suscitato contrarietà anche tra gli alleati regionali degli Usa, com’è stato evidente nel corso dello scalo della stessa in Corea del Sud, dov’è stata snobbata.
Ad aspettarla, infatti, non c’era il ministro degli Esteri Park Jin, partito per la Cambogia, né soprattutto il premier Yoon Seok-yeol, il quale ha comunicato che era in vacanza e non voleva essere disturbato, risolvendosi a chiamarla al telefono solo per evitare un affronto sfacciato agli Stati Uniti.
Ad oggi, dunque, Pechino si sta limitando a fare sfoggio della sua nuova potenza. Un monito a Taipei perché eviti fughe in avanti come una dichiarazione di indipendenza, preservando lo status quo attuale (che è indipendenza de facto). Ma il monito è rivolto soprattutto a Washington, dove, anche in ambiti votati al realismo, si continua a sostenere la necessità di confronto militare con la Cina.
Nulla importando davvero della libertà dei suoi cittadini, Taiwan negli Usa è inquadrata solo come il punto focale e scatenante di una resa dei conti con Pechino, da realizzare prima che la Cina consolidi la sua posizione di antagonista globale dell’America. E per arruolare i Paesi clienti in questa crociata.
Si tratta di replicare per Taiwan il modello ucraino, innescando un’invasione cinese che vedrebbe gli Stati Uniti e i suoi alleati sostenere gli isolani. Tale opzione ha due varianti. La prima è un sostegno indiretto, in stile ucraino appunto, che però per un’isola come Taiwan potrebbe risultare meno efficace (la Cina bloccherebbe il mare e il cielo circostante); la seconda vedrebbe Washington inviare le proprie forze a supporto (e proprio questo sembrava evocare la tappa della Pelosi a Pearl Harbor).
Taiwan è indifendibile
Questione spinosa e pericolosa, sulla quale ci sembra interessante un articolo dell’analista militare David Pyne pubblicato sul National Interest. del quale riportiamo la conclusione.
“Di tutte le opzioni disponibili per la Cina per riprendere il controllo di Taiwan e delle isole circostanti, la strategia di blocco è quella che presenta i rischi minori”.
“Secondo le recenti memorie dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, durante un incontro alla Casa Bianca, il presidente Donald Trump ha dichiarato che Taiwan è essenzialmente indifendibile perché si trova a sole 81 miglia dalla RPC [Repubblica popolare cinese] e a 8.000 miglia dagli Stati Uniti” [già, nelle considerazioni strategiche la geografia ha il suo peso… ndr]
“Inoltre, dato l’interesse prevalente nell’ambito della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, che è quella di evitare una guerra nucleare con la RPC, i rischi di un intervento militare statunitense per quanto riguarda una probabile escalation nucleare con la Cina supererebbero di gran lunga l’interesse degli Stati Uniti di difendere Taiwan dall’aggressione”.
“Se Taiwan si convincesse che gli Stati Uniti non infrangerebbero il blocco aereonavale cinese per rifornirla di aiuti umanitari, è probabile che arrivi ad accordarsi in fretta con Pechino, in un’intesa volta alla riunificazione che gli Stati Uniti potrebbero mediare”.
“Tale accordo potrebbe essere forgiato sulla base del modello ‘un paese-due sistemi’ proposto da Deng Xiaoping nel 1979, scongiurando un potenziale olocausto nucleare. E nonostante l’acquisizione da parte della Cina dell’industria manifatturiera avanzata dei semiconduttori di Taiwan [quasi monopolista nel mondo ndr], gli Stati Uniti potrebbero probabilmente vivere [e prosperare ndr] in un mondo in cui Taiwan sia unita alla Cina, in cui si lascia intatto tutto il suo sistema di alleanze militari indo-pacifiche”.
Annotazioni ragionevoli, ma non sempre prevale la ragione. Anche per l’Ucraina era chiaro che gli Usa non sarebbero intervenuti direttamente, ma l’intesa con la Russia, che pure si dovrà trovare, tarda ad arrivare, mentre il numero dei morti sale ogni giorno di più.
Ps. La Pelosi ha dichiarato che Pechino la odia perché è una donna. Sembra sia di moda offendere l’intelligenza dell’opinione pubblica, Urge un rigurgito di igiene verbale, ma anche mentale.