Politico. La de-industrializzazione della Germania
Tempo di lettura: 4 minuti“Le più grandi aziende tedesche stanno abbandonando la patria”. La de-industrializzazione è l’argomento di un articolo Matthew Karnitschnig su Politico dedicato alla crisi che attanaglia la Germania, la cui recessione è ormai conclamata.
Questo il succo dell’articolo: “All’improvviso, una tempesta perfetta si è abbattuta sull’ex potenza europea, segnalando che la sua attuale recessione non è solo ‘tecnica’, come sperano i politici, ma piuttosto un presagio di un’inversione fondamentale delle sue fortune economiche, che minaccia di innescare scosse sismiche in tutta Europa, creando ulteriore caos nel panorama politico già polarizzato del continente”.
Un problema finanziario e tecnologico?
La disoccupazione è in costante aumento, annota Karnitschnig e “le ordinazioni rivolte alle società di ingegneria del paese, a lungo un indicatore della salute della Germany Inc., sono diminuite drasticamente, scendendo del 10% solo a maggio, l’ottavo calo consecutivo. Una simile debolezza è evidente in tutta l’economia tedesca, dal settore delle costruzioni a quello chimico”.
“Anche l’interesse straniero per la Germania come Paese in cui investire sta diminuendo. Gli investimenti esteri in Germania sono diminuiti nel 2022 per il quinto anno consecutivo, toccando il punto più basso dal 2013″.
“A volte si sente parlare di ‘deindustrializzazione strisciante – beh, non è più solo strisciante”, ha detto a Politico Hans-Jürgen Völz, capo economista di BVMW, associazione che rappresenta il Mittelstand tedesco, cioè le migliaia di piccole e medie imprese “che formano il spina dorsale dell’economia del paese”.
Karnitschnig analizza i tanti fattori che hanno portato a tale situazione, dalla scarsa propensione per l’innovazione tecnologica a un rapporto tra finanza e industria troppo sbilanciato in favore del comparto industriale (a differenza, ad esempio, degli Stati Uniti).
La causa ineffabile della de-industrializzazione
In realtà, le analisi di Karnitschnig non convincono, basti pensare a come tratta la prima delle criticità citate: “Il potere della tecnologia di trasformare un’economia – o lasciarla indietro – è evidente quando si confrontano le traiettorie della Germania e degli Stati Uniti negli ultimi 15 anni. In questo periodo, l’economia statunitense, trainata da un boom nella Silicon Valley, è cresciuta del 76% arrivando a 25,5 trilioni di dollari. L’economia tedesca è cresciuta del 19% a 4,1 trilioni di dollari”.
Se l’assioma iniziale è vero, il parallelo successivo appare mera numerologia. Nel periodo citato, infatti, il boom della Silicon Valley ha coinciso con la stagnazione economica e finanziaria degli Usa, a stento celata grazie a iniezioni di montagne di dollari virtuali nel sistema, mentre in parallelo la Germania diventava un gigante economico-finanziario di portata globale.
Il punto è proprio quest’ultimo, cioè che al titanismo economico, la Germania ha associato una scarsa rilevanza politica (gigante economico, nano politico, si diceva). In tal modo, essa non ha potuto far nulla per difendersi dall’avversità del fato che l’ha posta al centro della competizione tra USA, Russia e Cina. In particolare dall’avversione USA per Berlino, vista come un competitore interno che aveva osato aprire le porte della sua economia agli antagonisti globali di Washington.
La guerra ucraina ha permesso a Washington – tramite sanzioni – di tagliare i fili che legavano la Germania alla Russia e la competizione USA-Cina ha reso più difficile la cooperazione tra Berlino e Pechino.
Il simbolismo del Nord Stream 2
Poi alle sanzioni si è aggiunto il sabotaggio del Nord Stream 2 da parte di Washington, che ha avuto effetti devastanti sull’economia del Paese. Un’impresa, peraltro, di grande significato simbolico, dal momento che all’affondamento del gasdotto ha corrisposto quello della Germania.
Si è trattato dell’atto di guerra più incisivo e devastante del post ’89, avendo fiaccato – e a lungo termine distrutto – la terza economia del pianeta e, insieme, quella di un intero continente. Peraltro tutto a scapito di Paesi che formalmente risultano alleati degli Stati Uniti.
Karnitschnig non può scriverlo ovviamente, né tantomeno lo può scrivere su un media come Politico. Nondimeno, nel suo articolo, vi accenna, quando spiega l’impatto che ha avuto sull’economia tedesca l’improvviso incremento del prezzo dell’energia (causato dalle sanzioni e dal sabotaggio del Nord Stream 2).
“A marzo, la società proprietaria della più grande fonderia di alluminio della Germania, Uedesheimer Rheinwerk, ha dichiarato che chiuderà l’impianto entro la fine dell’anno a causa dell’elevato costo dell’energia”.
Ancora più significativo un cenno successivo, a più ampio spettro: “In parole povere, la formula che ha reso la Germania la potenza industriale europea – forza lavoro altamente qualificata e aziende innovative alimentate da energia a basso costo – è stata annullata”.
La hybris teutonica
Infine, una considerazione che abbiamo fatto altre volte, ma che val la pena ripetere. In realtà, la Germania è anche vittima di se stessa e della sua usuale hybris, avendo usato della sua marcia trionfale economica per ergersi a dominus dell’Europa.
Distruggendo il progetto iniziale della Comunità europea, che ne faceva un ambito di cooperazione e mutuo soccorso dei popoli del Vecchio continente, Berlino ha preteso di farne uno spazio di mero supporto alla sua ascesa globale; ribaltando, peraltro, l’altra prospettiva insita nella genesi della Comunità, che era quella di stemperare l’aggressività teutonica.
Puntando su tale supporto, Berlino ha così avuto la pretesa di sfidare il mondo in solitaria. E ha perso, ovviamente. E, come avvenuto per le due guerre mondiali, ha trascinato con sé, nell’abisso, l’intero continente.
Ci vorrà tempo prima che l’abisso si riveli in tutta la sua drammaticità. E c’è ancora spazio per correttivi che ne attutiscano gli effetti. Ma lo scetticismo è legittimo date le avversità globali e soprattutto la statura della classe politica europea, da troppo tempo bloccata e infiltrata.