La Guerra dei Sei Giorni e il messianismo israeliano
Tempo di lettura: 2 minutiOdeh Bisharat, su Haaretz, firma un articolo sulle conseguenze della guerra dei Sei Giorni (1967), che vide Israele trionfare sulla più potente coalizione araba. Arabo israeliano, Bisharat ricorda la frustrazione di allora e la rabbia contro i leader dei Paesi arabi.
1967, guerra dei Sei Giorni: l’anno del risveglio dei demoni
Più che interessante la sua conclusione: “Alla fine della guerra era chiaro chi aveva vinto e chi perso. Ma oggi, decenni dopo, molte persone si sono rese conto che il vincitore è diventato perdente tanto quanto il perdente di allora. L’euforia che [dopo la guerra ndr] dilagò nella comunità ebraica israeliana è comprensibile. Il periodo di attesa precedente la guerra era stato snervante, ma poi, quando l’entità della vittoria divenne chiara, l’immaginazione prese il volo, perché se in sei giorni erano stati sconfitti tre paesi arabi, allora l’unico limite rimasto era il cielo”.
“Ma la debolezza araba ha trascinato Israele nel fango. Una tale vittoria a fronte di quella debolezza ha risvegliato i demoni dormienti”.
“[…] Nel 1967 fu piantato il seme della distruzione, sotto le spoglie di un messianismo aggressivo, che non tiene in nessun conto né la logica diplomatica né la morale. Questo seme ora sta minacciando tutta la società. Il gradito movimento di protesta [contro la riforma giudiziaria varata da Netanyahu ndr] rigetta solo i sintomi della malattia che affligge la società israeliana, ma ne ignora il seme”.
“L’ex capo del Mossad Tamir Pardo ha dichiarato: ‘Israele ha attivato il meccanismo di autodistruzione’. Sì, il tempo stringe, e secondo me questo è solo il risultato dell’occupazione, che ha portato allo sbocciare di un messianismo bellicoso. Ma il messianismo non costruisce uno stato, lo distrugge”.
Quando il mondo rifiutò lo Stato bi-nazionale proposto dagli arabi
Di interesse anche l’altro articolo di Haaretz al quale rimanda Bisharat, sempre sulla guerra dei Sei Giorni, a firma di Chuck Freilich, il quale annota come quel conflitto – ponendo fine alla tutela dell’Egitto e della Giordania su gran parte della popolazione palestinese e passando quasi tutti i palestinesi sotto il controllo israeliano – creò le condizioni del nuovo conflitto israelo-palestinese.
Infatti, “quella che in precedenza era stata una questione interstatale, tra Egitto, Giordania e Israele, divenne il problema di Israele, e sempre più un problema di due nazionalismi in conflitto”.
Quella guerra, rileva Freilich “ha scatenato forze messianiche e nazionaliste latenti nella società israeliana, che ora cercavano di affermare la sovranità [israeliana ndr] e di colonizzare tutto il biblico Israele“.
Di interesse un’altra notazione, riguardante le due possibili soluzioni al conflitto (almeno le uniche due prodotte finora) che sono la creazione di uno stato bi-nazionale o la soluzione dei due Stati (ognuna di esse con infinite variabili).
Ad oggi la soluzione dei due Stati sembra appartenere al passato, mentre è diventata molto più forte di prima la possibile soluzione tramite la creazione di uno Stato bi-nazionale. Tale prospettiva, sembra essere di nuovo conio rispetto all’altra, ma non è così,
Infatti, Freilitch scrive: “Alcuni credono ingenuamente che la soluzione dello ‘Stato unico’ sia una soluzione nuova e democraticamente più appropriata al conflitto. In realtà, era la posizione araba fin dai primi giorni del conflitto, quella che Israele ha respinto con veemenza e che ha respinto anche la comunità internazionale, che ha universalmente accettato la soluzione dei due Stati”.
Peraltro, Freilitch esclude la soluzione dello Stato unico, essendo esposta a un diuturno conflitto settario. In realtà, ciò che serve, ciò che è stato statuito dall’Onu, è uno Stato per i palestinesi, in assenza del quale perdura la follia.