La piazza turca ha frenato la corsa di Erdogan
Tempo di lettura: 2 minutiPiazza «Taksim non è mai stata Tahrir, per non dire Tiennanmen, perché la Turchia non è una dittatura. È una democrazia elettorale: una democrazia molto imperfetta, certo, in cui lo stato di diritto è eroso, i diritti delle minoranze sono inadeguati, e i mass media oggetto di intimidazione e manipolazione (la Turchia ha messo in carcere più giornalisti della Cina) ma pur sempre una democrazia». Così Timothy Garton Ash sulla Repubblica del 13 giugno, in un articolo dal titolo Da piazza Tahrir a piazza Taksim l’internazionale dei giovani, nel quale spiega come dopo gli incidenti scoppiati nelle piazze turche, il «sultano» Erdogan avrebbe perso peso politico, sia all’interno che all’estero.
Ma, allo stesso tempo, lo scrittore mette in guardia: non sarà chi ha dato vita ai moti di piazza a vincere le elezioni previste nel prossimo anno; «un esito realistico è che l’attuale presidente Abdullah Gul, e la sua corrente ora più moderata in seno al partito al potere, potrebbe prevalere. Anche in una democrazia più genuinamente liberale il “modello turco” non equivarrebbe ad una repubblica francese nel Mediterraneo orientale. Nel migliore dei casi andrebbe a combinare laicismo e democrazia riconoscendo l’Islam come religione della maggioranza della popolazione. In quanto tale potrebbe essere ancora polo di attrazione per gran parte del Medio Oriente esteso, nonché un serio candidato all’adesione all’Unione europea».
Nota a margine. Scenario realista e intelligente, quello del professore di Oxford – colpisce, tra l’altro, l’accenno alla quantità di giornalisti incarcerati –, ma le elezioni turche non sono prossime e sono ancora tante, e imprevedibili, le variabili. Prima fra tutte gli sviluppi della crisi siriana.