La presidenza Carter: l'Afghanistan e Moro
L’America è in lutto per la morte di Jimmy Carter. De mortuis nihil nisi bonum, recita il detto, cioè dei morti si taccia o si dica solo il bene, per cui piace ricordare del fu presidente il commento più lucido sull’impero americano: “La nazione più bellicosa nella storia del mondo” perché vuole costringere il mondo ad adottare i suoi valori.
Il debole Carter, Brzezinski e i neocon
Giudizio tragicamente attuale, anche se piuttosto che parlare di una costrizione ai valori americani sarebbe più corretto parlare di una costrizione agli interessi degli Stati Uniti, altrimenti non si spiegherebbe il supporto di Washington a tante dittature passate e presenti.
Tra queste, le varie dittature sudamericane, che perdurarono sotto la sua presidenza, e quella dello scià Reza Palhvi che gli fu fatale, avendo la sua amministrazione difeso fino alla fine il sanguinario dittatore iraniano, cacciato dalla rivolta islamica guidata dall’ajatollah Khomeini (fatale fu a Carter la cattura del personale dell’ambasciata Usa a Teheran a ridosso delle presidenziali Usa, che inutilmente tentò di liberare; scacco che gli costò la rielezione).
Nihil nisi bonum, quindi non ci dilunghiamo, si tratta di storie note e che, insieme ad altre infauste decisioni prese durante la sua presidenza – come la prosecuzione del sostegno al sanguinario dittatore indonesiano Suharto e alla sua avventura a Timor Est, con annesso genocidio della popolazione locale – ha contribuito a edificare l’Imperium attuale.
D’altronde, se vere sono tali atroci derive, è pur vero che il presidente degli Stati Uniti ha un potere limitato dai tanti poteri che reggono e guidano l’Imperium, da cui una responsabilità limitata, che pure resta. Né vanno dimenticate alcune iniziative lodevoli del fu presidente, come gli Accordi di Camp David con cui, pur se minati da tragici limiti, tentò di porre un argine alla conflittualità mediorientale e al conflitto israelo-palestinese.
Ma questi, come altro della sua amministrazione, appartengono al passato ormai remoto. Così della sua presidenza ci limitiamo a ricordare due avvenimenti che hanno deviato, meglio incanalato, il corso della storia verso nuovi orizzonti, quei ristretti orizzonti nei quali ancora si dibatte il mondo e che vedono protagonisti, più che il debole presidente Carter, l’uomo che scelse come suo Consigliere per la Sicurezza nazionale, il polacco-americano Zbigniew Brzezinski, e i circoli neoconservatori, che proprio con la sua amministrazione iniziarono la loro scalata alle segrete stanze del potere (The American Conservative).
L’Afghanistan
Il primo avvenimento è la guerra in Afghanistan. Fu durante la sua presidenza che si consumò l’invasione sovietica di Kabul. La vulgata racconta che gli Usa hanno iniziato a sostenere i Mujaheddin afghani – rafforzati dai tagliagole assoldati nell’ecumene araba da Osama bin Laden – dopo l’invasione.
Non è vero, come rivelò lo stesso Brzezinski nel 1998: “Secondo la versione ufficiale della storia, gli aiuti della CIA ai mujahiddin iniziarono nel 1980, vale a dire dopo che l’esercito sovietico invase l’Afghanistan il 24 dicembre 1979. Ma la realtà, finora tenuta segreta, è completamente diversa: fu il 3 luglio 1979 che il presidente Carter firmò la prima direttiva per inviare in segreto degli aiuti agli oppositori del regime filo-sovietico di Kabul”.
Tale rivelazione è rammentata da Ted Snider in un articolo pubblicato su Antiwar nel quale spiega come l’insorgenza dei ribelli islamici aveva spinto il governo afghano a chiedere aiuto a Mosca ma, come ricorda in John Prados in Safe for Democracy , “i sovietici respinsero ripetutamente tali richieste. La Russia non voleva invadere l’Afghanistan: sapevano cosa succede agli imperi che invadono l’Afghanistan”.
Fu a seguito di tali rigetti che “Brzezinski disse a Carter che un programma paramilitare della CIA [in ausilio agli insorgenti] avrebbe forzato la mano della Russia e l’avrebbe costretta a invadere l’Afghanistan”. Il piano scattò ed ebbe successo: Mosca alla fine invase. “Sebbene gli Stati Uniti avessero finto sorpresa – commenta Snider – la politica di Brzezinski di un’operazione paramilitare della CIA fu avviata proprio perché si aspettava che avrebbe innescato un’invasione sovietica”.
“Quell’operazione segreta è stata un’idea eccellente – commentò in seguito Brzezinski – Ha avuto l’effetto di trascinare i russi nella trappola afghana…”. E quando i sovietici caddero nella trappola, Brzezinski disse a Carter: “Ora abbiamo l’opportunità di dare all’URSS la sua guerra del Vietnam”.
La guerra consumò risorse vitali dell’Impero sovietico e contribuì non poco alla sua fine. Pagina di storia che va ricordata perché spiega le dinamiche che si sono ripetute, sotto altra forma, nella guerra ucraina, e perché va pure ricordato come è nato il fondamentalismo islamico, variabile nuova e funesta dell’islam, che tanta afflizione ha portato al mondo.
Aldo Moro
Il secondo avvenimento di primaria rilevanza storica avvenuto nel corso della presidenza Carter è il prelevamento e l’assassinio dell’onorevole Aldo Moro.
Inutile in queste sede postulare o dibattere su una possibile etero-direzione delle Brigate rosse o sui tanti misteri del “caso Moro”, quel che è certo è che l’America allora non fece nulla per liberare lo statista, anzi. Perché la sua morte, che chiuse la finestra di opportunità aperta dal compromesso storico e aprì agli sviluppi conseguenti, era più consona ai suoi interessi, meglio alle prospettive dei neoconservatori.
Fu per gestire le fasi successive al prelevamento di Moro che Brzezinski inviò in Italia lo strano psichiatra Steve Pieczenik, che influenzò in maniera decisiva la risposta dello Stato italiano alla tragedia, con la conclusione ormai nota. Nel suo libro postumo, edito nel 2006, che dice mezze verità e molte falsità, perché tanto resta indicibile (come da conclusione dell’ultima Commissione Moro) e tante le narrazioni irrevocabili, resta però icastico il titolo: “Abbiamo ucciso Aldo Moro”.
A tale proposito si può ricordare anche l’intervista dell’ex presidente del CSM Giovanni Galloni, il quale ebbe a ricordare che, alcune settimane prima del suo prelevamento, Moro gli confidò come “notizia certa” che americani e israeliani avevano infiltrati nelle Brigate rosse, ma che non dissero nulla agli italiani, che se fossero stati avvertiti “probabilmente avrebbero trovato” i covi dei terroristi.
L’assassinio di Moro non fu una tragedia italiana, ma globale. Il compromesso storico, nato dall’intuizione di Andreotti, Berlinguer e Moro e con la supervisione di Paolo VI – nei modi e nelle forme possibili a un Papa – aveva, infatti, un orizzonte globale.
Ricomprendendo il Pci nell’ecumene atlantista-occidentale, avrebbe reso tale partito il faro del comunismo internazionale, anzitutto in Occidente, sciogliendolo dall’obbedienza alla casa madre sovietica e costringendo l’Urss, ormai avviata al declino, a intraprendere la via delle riforme, che tentò troppo tardi e in modalità disastrosa Michail Gorbacev.
La Guerra Fredda sarebbe finita con un compromesso storico tra vincitori, gli Usa, e vinti, l’Urss, ma senza che quest’ultima collassasse, evento che tanta destabilizzazione ha portato nel mondo (come palesa in maniera lampante l’attuale guerra ucraina).
La morte di Moro, di certo non voluta dal debole Carter, fu però il momento epifanico del potere neocon, che voleva chiudere la Guerra Fredda con il trionfo degli Stati Uniti, cosa avvenuta nel fatidico ’89. Il collasso dell’Urss, come da prospettiva poi avveratasi, avrebbe sottomesso il mondo all’unico Imperium.
Il terribile ’78 italiano – e Vaticano, poco dopo Moro morì il suo mentore Paolo VI, e fu l’anno dei tre papi – fu quindi un punto di svolta della storia del mondo, il momento in cui la scommessa dei neocon iniziò a diventare storia. Morto Moro, il mondo è impazzito, ebbe a commentare con lucida lungimiranza Andreotti.
Bizzarro, o forse no, è accaduto che accingendomi a scrivere queste righe mi sia capitato sotto gli occhi un articolo di Vera Weidenbach. pubblicato su Haaretz il 27 dicembre, sulla necessità di riscoprire Hannah Arendt e dedicato a quanto si sta consumando a Gaza e in Israele e le sue ripercussioni sul mondo. Di grande interesse, anche se non condivisibile in tutto, colpisce il refrain della cronista, che recita, appunto: “Il mondo è impazzito”. C’è chi lo aveva capito decenni fa e aveva tentato di porre un argine a certe spaventose, prevedibili, derive.