La Turchia e Trump
Tempo di lettura: 2 minutiIn queste ore, «nelle stanze del potere turche» c’è un’«atmosfera che rasenta l’euforia
». Così Bernardo Valli, sulla Repubblica del 19 gennaio in un articolo nel quale tenta di prevedere la natura dei rapporti tra Recep Erdogan e il futuro presidente degli Stati Uniti.
Scrive Valli: «La Turchia criticata e snobbata dagli europei, e tollerata come alleato non sempre affidabile dalla vecchia amministrazione di Washington, è adesso al fianco della Russia. La quale appare come il designato partner dell’America di Trump […]».
«Il recupero di Vladimir Putin come interlocutore [da parte di Trump ndr.] è implicitamente anche una mano tesa a Erdogan. I cui recenti stretti rapporti con Mosca, in particolare durante l’ultima fase dell’assedio di Aleppo, avevano sollevato le obiezioni di molti membri della Nato, di cui la Turchia è uno dei principali alleati».
«Se l’annunciata intesa di Trump con Putin si concretizza e se l’altrettanto annunciato declassamento della Nato viene attuato, l’indisciplinata posizione di Erdogan diventa legittima. Il presidente turco non sarebbe più un alleato infido ma un leader in sintonia con la politica estera della superpotenza
».
Nota a margine. La prospettiva delineata è alquanto realistica, anche nell’uso del condizionale, dal momento che Trump troverà non poche obiezioni nell’attuazione del suo programma, che potrebbero costringerlo a una rimodulazione impossibile da prevedere oggi, se non una vera e propria riformulazione.
Tra i nodi da sciogliere da parte della Casa Bianca c’è quello del destino di Fetullah Gulen, il guru del movimento islamista Feto, esule negli Stati Uniti, che Ankara considera capo di un’organizzazione terrorista e ne chiede da tempo l’estradizione, ad oggi negata.
Ancora più importante il contrasto sul ruolo del Pyd, partito che Ankara ritiene indistinguibile dal Pkk (partito comunista curdo) e a questo accomunato nell’accusa di terrorismo. Invece gli Stati Uniti considerano il Pyd un prezioso alleato in funzione anti-Isis.
Un contrasto transatlantico che si intreccia con un’opposta prospettiva geopolitica, dal momento che Washington sembra aver dato un tacito placet a un futuro Stato curdo in Siria, che invece la Turchia vede come una minaccia.
A tali controversie si intreccia una diffidenza di fondo che l’establishement turco ha iniziato a nutrire verso Washington dopo il fallito golpe che per poco non ha defenestrato Erdogan nel luglio scorso, che molti in Turchia reputano – a torto o a ragione – sia stato segretamente sostenuto in ambito Nato.
Una diffidenza che allunga la sua cupa ombra anche sulla strategia della tensione di cui da alcuni mesi è fatta segno la Turchia, con attentati reiterati: politici e intellettuali turchi sono convinti che tale emergenza terroristica non dispiaccia oltreoceano, né ad alcuni ambiti Nato, tanto che è stata minacciata la chiusura della base aerea di Incirlik, forse la più importante del Medio oriente.
Dissipare tali diffidenze potrebbe essere già un buon viatico per affrontare le divergenze riguardo il destino di Gulen e dei curdi siriani. Vedremo quel che farà Trump.