L'accordo sul nucleare iraniano è morto insieme a Fakhrizadeh?
Tempo di lettura: 3 minutiGideon Levy firma un dolente articolo sull’assassinio del professor Mohsen Fakhrizadeh, a capo del programma nucleare iraniano, avvenuto alcuni giorni fa nella centrale Khomeini Boulevard di Teheran, dove anche il luogo è importante, dato che l’intelligence israeliana ha voluto inviare al nemico il messaggio di poter colpire a proprio piacimento.
Nella sua nota su Haaretz, Levy annota la grande soddisfazione con la quale cronisti e analisti israeliani hanno accolto la notizia ed elogiato l’efficacia dell’operazione. Questo il suo commento: “C’è solo una questione che non è stata sollevata in tutto ciò […] se cioè queste uccisioni mirate sono legittime. Anche porre la domanda è considerato un’eresia, un tradimento” della patria.
Un omicidio illegittimo, annota Levy, che nella sua nota pone in dubbio anche la sua utilità pratica. L’assassinio, infatti, non solo non frenerà il programma nucleare iraniano. come peraltro rilevato anche da Yossi Melman in un’altra nota su Haaretz, ma potrebbe addirittura “accelerarlo”.
Insomma, mette a rischio Israele, nonostante sia stato eseguito come sacrificio rituale offerto in onore del “culto della sicurezza”.
Dopo l’assassinio, infatti, c’è allarme in Israele per una possibile risposta iraniana. Minaccia, quest’ultima, esecrata dal mondo, ma che purtroppo appartiene al necrofilo meccanismo che è stato innescato tanto improvvidamente.
Così commenta Levy: “Ci si deve chiedere: cosa sarebbe successo se degli agenti segreti stranieri avessero ucciso i professori Israel Dostrovsky ed Ernst David Bergmann, Shalhevet Freier o Shaul Horev, le controparti storiche israeliane di Fakhrizadeh? Cosa avrebbe detto Israele allora? E come avrebbe risposto lo Stato? Avrebbe fermato il suo programma nucleare? Non avrebbe forse lanciato una campagna di vendetta in tutto il mondo?”.
In realtà, gli analisti israeliani ritengono che l’Iran non risponderà, in attesa che la nuova amministrazione Usa a trazione Biden (ancora non ufficiale date le controversie in corso), rimetta in piedi il trattato sul nucleare siglato a suo tempo da Obama.
E tanti reputano che sia una mossa immaginata da Netanyahu per porre criticità a tale ipotesi: portando al parossismo la tensione tra Tel Aviv e Teheran la strada per riaprire un dialogo Usa-Iran si fa ardua.
Una strada che a fatica era stata portata a compimento da Obama. Nel suo libro (“A promise land”) l’ex presidente degli Stati Uniti ricorda le enormi pressioni subite da alcuni organismi della comunità ebraica americana perché non siglasse l’accordo.
Pressioni esercitate peraltro su tutta la politica americana, che hanno avuto successo non sono tra i repubblicani. Infatti, scrive Obama, “anche i più coraggiosi progressisti erano restii a sembrare meno filo-israeliani dei repubblicani”. Sempre nel libro, il fortissimo contrasto che ebbe a subire da parte dallo stesso Netanyahu.
Nel ricordare tale circostanza, The Intercept annota come il premier israeliano abbia avuto un ruolo di primo piano nel mandare all’aria l’accordo sotto l’amministrazione Trump.
Infatti, “Nel 2018 – scrive The Intercept – è trapelato un video di Netanyahu che si vantava di aver convinto Trump a ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare. «Abbiamo convinto il presidente degli Stati Uniti [a uscire dall’accordo]», ha detto Netanyahu nel video trasmesso dalla televisione israeliana”.
Quanto riportato nel libro di Obama è il segreto di pulcinella. Purtroppo, nel caso specifico, non si tratta di una farsa napoletana, ma di una tragedia mediorientale, che rischia di provocare una catastrofe regionale di interesse globale.
Si spera che prevalga la ragione, anche in Israele, dove pubblicamente, oltre Levy, si registrano poche voci critiche verso certe improvvide iniziative, dato che quando è in gioco la Sicurezza nazionale occorre far blocco.
Ma tanti, anche all’interno degli apparati militari e dell’intelligence, nel segreto, sono ben consci dei pericoli derivanti da folli escalation, come riferiva alcuni giorni fa David Ignatius su Washington Post.
Il punto non è tanto evitare una guerra. La guerra contro l’Iran è già in corso, anche se segreta, sottotraccia, e si combatte in tutto il Medio oriente, da Beirut a Teheran, come sui media e nell’ambito politico d’Occidente.
La controversia sull’accordo nucleare è solo una battaglia di tale conflitto, ma decisiva, dal momento che senza il ripristino dell’intesa la guerra aperta, con coinvolgimento americano (e non solo), sarà inevitabile.
Le autorità iraniane hanno fatto sapere che l’omicidio non muta la loro volontà di ripristinare l’accordo e così ha detto Biden. ma da qui al cambio di guardia della Casa Bianca – con Trump impegnato nella battaglia legale e Biden ancora fuori dai giochi – quanti l’avversano hanno una finestra d’opportunità per affondarlo.
Così l’omicidio del professore iraniano rischia di essere ricordato come un simbolo: insieme a lui potrebbero esser state assassinate anche la possibilità di riavviare un’intesa volta a stabilizzare la regione più pericolosa del mondo.