L'America è tornata... a bombardare
Tempo di lettura: 4 minutiL’America torna a bombardare la Siria. Questo l’esito della defenestrazione di Trump, accusato di razzismo, fascismo e quanto altro (il nuovo Hitler…), ma in realtà inviso agli apparati e all’establishment perché ha tentato in tutti i modi di chiudere la follia delle guerre infinite. Alla sua intronizzazione Biden aveva detto: “L’America è tornata”. E, infatti, son tornate le bombe facili, quelle umanitarie.
Tornano le bombe umanitarie
Non che Biden sia favorevole, ché anzi si è associato alla prospettiva di chiudere lo folle stagione delle bombe, ma c’è una differenza di fondo. Trump sosteneva l’isolazionismo, che vedeva l’America conservare la sua primazia nel mondo attraverso il rilancio dell’economia.
Da qui anche la necessità di smettere di investire in guerre che non producono guadagni. Non quindi un ammainabandiera dell’Impero, ma una versione meno guerrafondaia, realistica, che tra l’altro prendeva atto della fine del primato assoluto degli Usa per aprirsi a un nuovo ordine mondiale, una sorta di nuova Yalta, in condivisione con Cina e Russia (con la Ue abbandonata a una corsa in solitaria, ma non per questo priva di prospettive).
La presidenza Biden, invece, si dipana nel solco dell’imperialismo precedente: l’America si pone nuovamente come gendarme del mondo, pronto a usare la forza dei suoi arsenali per conservare il suo primato.
Base di questo interventismo globale non più, anzi non solo, la necessità di contrastare il Terrore e i cosiddetti Stati canaglia, come per l’era Bush, ma anche la difesa dei diritti umani: da qui i cosiddetti bombardamenti umanitari inaugurati sotto la presidenza di Bill Clinton.
Unico correttivo quello innestato durante la reggenza di Obama, che vede l’ingerenza umanitaria dipanarsi in parallelo alla diplomazia, con tutte le ambiguità proprie di quella presidenza, data dall’inevitabile alternanza di bombe e passi diplomatici più o meno distensivi.
Tale ambiguità permette alla presidenza Biden di cercare di ripristinare il trattato sul nucleare iraniano e, insieme, di bombardare le milizie filo-iraniane al confine tra Siria e Iraq, come accaduto ieri.
Un’ambiguità con cui il mondo dovrà purtroppo convivere, sperando peraltro che Biden duri tempo, ché la Vice, Kamala Harris, che già si muove come presidente in pectore, è molto peggio.
L’inevitabile attacco
L’attacco di ieri, in realtà, non sorprende. La risposta al lancio di razzi all’ambasciata Usa ad opera delle milizie sciite filo-iraniane, costata la vita un contractor civile, non dava ampi spazi di manovra al presidente.
Nulla importando che quei missili erano stati lanciati contro un esercito di occupazione, questo lo status dei militari Usa in Iraq, e come risposta all’omicidio del loro comandante, ucciso a sangue freddo insieme al Capo delle guardie rivoluzionarie iraniane, Qassem Soleimani, le bombe Usa erano – più o meno – inevitabili.
La ritorsione è stata sospesa per giorni. Giorni trascorsi, presumibilmente, per attutirne l’impatto attraverso un lavorio sottotraccia con l’Iran, come si evince dalla reazione iraniana.
Teheran ha, infatti, protestato fermamente contro le bombe Usa, ma non eccessivamente. Il dialogo sul nucleare iraniano, vero obiettivo delle bombe di ieri, resta aperto.
A protestare più vivacemente è stata la Siria, che vede il ritorno dei bombardamenti Usa sul proprio territorio (a proposito di macellai, epiteto col quale viene additato Assad), segnale inquietante per le prospettive che apre.
Proteste alle quali si è unita la Russia, che ha lamentato il mancato preavviso ai suoi militari presenti in Siria, stabilito a suo tempo dalle due potenze per evitare pericolosi scontri diretti tra i due eserciti. Ma gli Usa se ne sono fregati, per usare un francesismo, con rischi conseguenti.
Secondo il sito Avia-pro (sito ben informato), e fonti iraniane, a differenza dei report statunitensi, i danni sarebbero stati minimi: l’azione sarebbe stata contrastata con efficacia da sistemi di disturbo elettronico, forse iraniani o forse russi.
Alimentare il Terrore
Ma al di là delle differenze dei report, resta l’attacco a due Stati sovrani. Non solo la Siria, anche l’Iraq, dato che le milizie sciite sono parte integrante dell’esercito iracheno e composte per lo più da iracheni.
Il fatto che il ministro degli Esteri di Baghdad, eletto dal popolo iracheno, oggi si trovi in Iran (Irna), è fotografia icastica dei veri rapporti tra i due Paesi e dell’interferenza Usa negli stessi.
La richiesta di Washington di tranciare tali legami, infatti, è diktat inaccettabile per un popolo che da anni subisce le conseguenze dell’intervento e dell’illegittima presenza americana sul proprio suolo.
Va inoltre ricordato che le milizie sciite sono in prima linea nella lotta contro al Qaeda e l’Isis che ancora infestano il Paese. Colpirle è consegnare nuovi spazi di manovra al Terrore, in Medio oriente come altrove.
Infine, va registrato che l’operazione al confine siro-iracheno giunge, non a caso, nello stesso giorno in cui gli Usa hanno comunicato al mondo che il principe ereditario saudita, Mohamed bin Salman, è il mandante dell’omicidio dell’oppositore politico, e giornalista del Washington Post, Jamal Khashoggi.
Biden ha, infatti, de-secretato i documenti della Cia che accusano l’uomo forte di Riad. Un colpo all’Iran, dunque, e uno ai sauditi, loro acerrimi nemici. Una mossa per rendere Riad più flessibile ai desiderata Usa, anche riguardo il nucleare iraniano. Ambiguità, appunto, sulle quali torneremo a scrivere nelle prossime note.