L'America, non Israele, sta gestendo la guerra di Gaza
In parallelo alla visita di Biden a Gerusalemme, “gli Stati Uniti hanno inviato una portaerei nel Mediterraneo orientale – mentre un’altra è in viaggio – e hanno mobilitato navi da guerra britanniche e italiane in quelle acque in segno di sostegno a Israele”.
“Il segretario di Stato americano Antony Blinken sta svolgendo un ruolo fondamentale nel coordinamento con Israele, partecipando apertamente alle sue riunioni di gabinetto e guidando i negoziati diplomatici per conto di Tel Aviv”.
“Contemporaneamente, il Segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin è arrivato in Israele per fornire il suo ‘incrollabile’ sostegno, che comprende il dispiegamento di 2.000 soldati delle forze speciali statunitensi […]. Nei prossimi giorni il comandante del Comando Centrale delle forze armate statunitensi (CENTCOM) visiterà anche il confine con il Libano”.
“Queste azioni lasciano pochi dubbi sul fatto che in questa guerra è Washington a prendere l’iniziativa, non il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il suo ministro della Difesa o il suo Capo di stato maggiore. Anche Tel Aviv non sta affatto cercando di nascondere questa situazione. Come ha affermato l’eminente giornalista israeliano Yossi Yehoshua, ‘gli Stati Uniti hanno il controllo completo sulla battaglia di Gaza’”.
Le minacce dell’America
Così un articolo di The Cradle, che spiega come l’America abbia avvertito Hezbollah che, in caso fosse entrato in guerra, sarebbe seguita la “distruzione del Libano”, minaccia riferita anche da altre fonti e dalla portata criminale dal momento che il movimento sciita Hezbollah non rappresenta il Libano, che è un mosaico di convivenza tra religioni diverse, nemmeno tutti gli sciiti. Tant’è.
“Minacce simili – continua The Cradle – sono state rivolte anche alle numerose organizzazioni della resistenza irachena” – e anche in questo caso siamo di fronte a minacce ad ampio spettro -, mentre per quando riguarda la Siria “il presidente Bashar al-Assad ha ricevuto un avvertimento ancora più singolare: se avesse permesso l’apertura di un fronte siriano contro Israele, ne avrebbe subito personalmente le conseguenze. Questo, mentre Israele bombardava gli aeroporti internazionali siriani di Damasco e Aleppo”, bombardamento ripetuto più volte, anche prima di questa guerra, in violazione di tutte le leggi internazionali.
Non solo, l’America ha deciso di rafforzare la sua presenza nella regione, inviando nuove truppe e nuovi armamenti. Così, al di là della guerra di Gaza, l’America sta ripristinando la sua presenza militare in Medio oriente. Da questo punto di vista, la crisi attuale ha offerto un’occasione unica ai neocon per far ritornare le cannoniere americane nel loro teatro di guerra prediletto.
Risolvendo in qualche modo la crisi di Gaza, sempre se vi riuscirà, Washington si propone di fare di tale successo il primo tassello per rilanciare le proprie trame in Medio oriente, ripristinando fili che la distensione tra Iran e Arabia Saudita, guidata dalla Cina, aveva tagliato. e mandando all’aria il disegno cinese di un rimodellamento del Medio oriente basato su quell’appeasement che, oltre che a creare un nuovo e più proficuo rapporto tra Teheran e le varie petromonarchie, aveva portato a una distensione della guerra in Yemen e a un ritorno di Assad nell’ecumene araba.
Per questo la risoluzione della crisi di Gaza deve essere tutta Made in USA, emarginando Cina e Russia, a nefasto nocumento delle possibilità di riuscita dell’impresa e a tutto danno dei civili di Gaza, dei civili e dei militari israeliani e degli ostaggi in mano ad Hamas, oltre che con gravi rischi di ampliamento del conflitto.
Peraltro, gli Stati Uniti negli ultimi anni non hanno dato grandi prove di capacità né militari né diplomatiche, da cui la miopia della decisione. D’altronde, l’arroganza e la stupidità spesso vanno a braccetto. Si spera che almeno nella gestione della guerra di Gaza gli Stati Uniti riescano a contenere la furia israeliana, finora alquanto scatenata.
L’attacco di terra rimandato
Ad oggi gli Usa sono riusciti a rimandare l’attacco di terra, ritardo che serve a tante cose: anzitutto a rafforzare il dispositivo militare USA nella regione; a preparare meglio l’esercito israeliano agli scontri ravvicinati; a studiare strategie che riducano le vittime israeliane (e forse di civili palestinesi); ma soprattutto a trattare con quanti più attori possibili, regionali e non, per arrivare a delineare una missione che possa portare Israele a brandire una vittoria e a ritirarsi.
Non sarà facile e i rischi di imprevisti sono tanti. Chiusi nel loro arrogante solipsismo, gli Stati Uniti stanno trascinando il mondo sul ciglio di un burrone, dove i primi a cadere saranno loro e Israele che dicono di voler proteggere (all’Ucraina tale protezione non ha giovato molto…).
Peraltro, se continua così – con 4.651 palestinesi, di cui quasi 2.000 bambini, uccisi fin dalle prime ostilità – la guerra sarà persa. Potranno dire al mondo che si tratta di vittime inevitabili, che Gaza sarà più bella e felice di prima, ma mezzo mondo, e non solo mezzo, e la storia parleranno di genocidio (parola, peraltro, già usata in abbondanza).
Così un autorevole diplomatico della Ue al Financial Times: “Tutto il lavoro che abbiamo fatto con il Sud del mondo [sull’Ucraina] è andato perduto… Dimentica le regole, dimentica l’ordine mondiale. Non ci ascolteranno mai più”.
Tanti stanno invitando Tel Aviv a non confondere tra giustizia per le vittime innocenti subite e vendetta. Tale distinguo è essenziale non solo per ragioni umanitarie, ma anche per ragioni strategiche e, soprattutto, esistenziali. Se la guerra di Gaza sarà un innegabile genocidio, Israele dovrà convivere con un marchio di infamia indelebile.
Non solo, farà svaporare anche l’orrore che ha suscitato e suscita il barbaro assassinio dei 1.300 israeliani, che invece meriterebbe di restare a perenne memoria di una brutalità inaccettabile. Vedremo.