Le trattative Israele-Hamas e l'elezione del presidente libanese
“Hamas: Netanyahu ha accettato di porre fine alla guerra dopo il completamento della prima fase dell’accordo sugli ostaggi”. Questo il titolo di un articolo del Jerusalem Post. Così il sottotitolo: “I media arabi hanno riferito che la posizione di Netanyahu è cambiata a causa delle minacce di Trump secondo il quale si dovrebbe raggiungere un accordo prima che lui entri in carica, altrimenti ‘ci sarà un inferno da scontare'”.
L’incerto ottimismo
La nota non avrebbe più valore di altre che riferiscono delle trattative in corso a Doha, se non fosse che si tratta del giornale più autorevole di Israele e che è firmato dalla redazione del media. Insomma, le dichiarazioni sottese a un cauto ottimismo che si intrecciano sui negoziati in corso, non ultime quelle di Biden, sembra che abbiano un qualche fondamento, seppur sempre in balia dell’imprevedibile ferocia del premier israeliano e dei partiti ultraortodossi che sostengono il suo governo.
Tra questi, spicca la voce dl ministro delle Finanze Bezalel Smotrich che, dopo aver espresso nuovamente la sua contrarietà ai negoziati, ha aggiunto che questi sono ancor più incomprensibili “adesso, dal momento che che mancano pochi giorni perché possiamo sederci al tavolo più forti, con Trump alla Casa Bianca […] La guerra di Gaza dovrebbe finire con l’eliminazione di Hamas. Dobbiamo restare a Gaza a lungo. Dobbiamo smettere di avere paura della parola ‘occupazione'”.
Detto questo, appare significativo che il Jerusalem Post abbia correlato un qualche ri-orientamento di Netanyahu alla minaccia di Trump, dal momento che in tal modo il giornale israeliano sembra propenso a credere che la minaccia del futuro presidente Usa non fosse rivolta esclusivamente contro Hamas o che, in subordine, Netanyahu tema che l’intromissione di Trump gli tolga la gestione della guerra in corso, con i rischi conseguenti per la sua poltrona.
La poltrona di Netanyahu
Poltrona che ha difeso con le unghie e con i denti, ma soprattutto con le bombe piovute su Gaza e sulla Cisgiordania in una guerra che ha voluto far proseguire contro tutte le spinte avverse, nel timore che, una volta finita, scontasse il resto dei suoi anni in prigione a causa dell’attivismo della magistratura e dei pericoli insiti nelle inchieste sulla débacle del 7 ottobre, che le opposizioni imputano, non a torto, a lui.
Un timore che ora dovrebbe essersi attenuato, dal momento che Netanyahu può contare sui tanti sodali imbarcati nell’amministrazione Trump, che dovrebbero evitargli tale destino. Da qui il venir meno di uno dei fattori più ostativi a un accordo con Hamas.
Inoltre, a stare a quanto riporta Haaretz, Hamas ha fatto a Israele un’offerta che sembra impossibile rifiutare: abbandonando richieste pregresse di più ampio respiro, si è detto pronto a un accordo che preveda un cessate il fuoco temporaneo, durante il quale avverrebbe la liberazione e la restituzione dei cadaveri di parte degli ostaggi mentre, in parallelo, si continuerà a trattare sulle questioni più spinose, che hanno vanificato i negoziati precedenti.
Peraltro, gli ultimi sviluppi mediorientali, dall’erosione della forza di Hezbollah alla caduta di Assad, offrono a Netanyahu la possibilità di ostentare ai suoi concittadini e al mondo il suo trionfo, così da poter rintuzzare con successo le accuse di un cedimento ad Hamas mosse al premier israeliano dai suoi alleati di governo ogni qual volta appariva tentato di chiudere un’intesa con la milizia palestinese.
L’elezione di Aoun
Inoltre, è più che probabile che l’elezione del presidente libanese, avvenuta ieri dopo oltre due anni di inutili tentativi, sia parte di una trattativa in corso con l’Iran, e non solo, per chiudere le attuali conflittualità regionali.
L’elezione, infatti è stata, di fatto, una vittoria degli Stati Uniti, che si sono mossi per conto di Israele, i quali da tempo sostenevano la candidatura del Capo di Stato Maggiore libanese, il generale Joseph Aoun, incontrando l’opposizione di Hezbollah e dei suoi alleati in Parlamento.
Durante le operazioni di voto per l’elezione del nuovo presidente, il Parlamento libanese era presidiato dagli ambasciatori di Stati Uniti, Arabia Saudita, Iran, Qatar, Egitto e Cina, a segnalare la scarsa sovranità concessa al piccolo, quanto importante, Stato mediorientale e di come le trattative si siano svolte a un altro e più alto livello.
Anche Amal, la fazione politica di Hezbollah, ha votato Aoun, dopo averlo avversato in precedenza e aver mandato a vuoto la prima votazione, per arrivare poi a lodare l’unità ritrovata del popolo libanese. E con Aoun si è congratulato anche l’Iran, sovrapponendosi all’esultanza di Stati Uniti e Israele.
L’elezione di Aoun dovrebbe rassicurare Israele, dal momento che, in parallelo, l’esercito libanese sta prendendo il controllo il Sud del Libano, prima presidiato da Hezbollah. Così da convincere Tel Aviv a ritirare i suoi soldati dalla regione, che oggi occupano in parte e illegittimamente provocando tensioni che hanno causato ingiustificabili vittime libanesi anche dopo il cessate il fuoco.
Certo, Israele vede svaporare il sogno di ampliare i propri confini fino al fiume Litani e deve rinunciare alla sua preziosa acqua, ma in cambio si è accaparrato parte della Siria e cospicue risorse idriche del Paese confinante.
La Yalta mediorientale
Tutti questi cambiamenti, compresa la smilitarizzazione della Siria da parte dell’esercito israeliano, che ha distrutto tutto l’arsenale di Assad a suon di bombe, potrebbe consentire a Netanyahu di accettare di riporre le pistole nelle fondine e magari rinunciare anche all’ossessione di aggredire l’Iran.
Non sembra un caso che, il giorno dopo l’elezione di Aoun, il Washington Post, media di riferimento della destra americana, pubblichi un editoriale nel quale ipotizza che sia giunto il momento per gli Usa di trovare un accordo con Teheran.
Detto questo, e a scanso di equivoci, la settimana prossima, e prima dell’insediamento di Trump, il presidente iraniano Masoud Pezeshkian si recherà in Russia, dove è probabile che si vada a chiudere il parteneriato strategico globale con Mosca.
Una delle opzioni in campo per ristabilire un qualche ordine in Medio oriente è quella di stabilire una Yalta mediorientale, che veda un confronto aperto, ma non caldo, tra le varie potenze regionali. In questo quadro, deve essere chiusa la follia di Gaza e trattenere quella dell’ultradestra israeliana, intenzionata a gazificare anche la Cisgiordania (vedi il durissimo editoriale di Haaretz contro tale prospettiva).
Una follia fotografata da uno studio di varie e autorevoli istituzioni internazionali pubblicato su Lancet, che ha concluso come le vittime di Gaza siano state sottostimate del 41%. Dall’inizio della guerra all’ottobre scorso erano stati registrati circa 42mila morti, invece superavano i 70mila, tanti dei dei quali bambini. Si tratta di vittime dirette, quelle indirette, morte di fame, stenti e malattie, sono molte di più (a luglio 2024 Lancet stimava che fossero oltre 186mila). Questa pazzia omicida deve cessare.