Libia: bombardamenti "presidenziali"
Tempo di lettura: 3 minutiGli Stati Uniti bombardano la Libia. Obiettivo l’Isis. Cosa totalmente inutile contro il Terrorismo, anzi lo alimenterà come successo per tutte le precedenti guerre neocon. Inutile contro il terrorismo, la nuova campagna libica è però utile ad altri scopi.
I bombardamenti infatti hanno un fine collaterale primario: il loro vero obiettivo è Khalifa Haftar. Uomo forte del governo di Tobruk, egli contrasta il governo di unità nazionale di Fayez Sarraj, instaurato dall’Onu per conto degli Stati Uniti e dell’Occidente, il quale, pur insediato a Tripoli, non riesce domare il caos nel quale è precipitato il Paese.
In questo caos muove le sue pedine Haftar, padrone della Cirenaica. Legato a doppio filo all’Egitto e agli Emirati arabi (e segretamente alla Francia), da tempo è impegnato a prendere il controllo del Paese, acquisendo ambiti territoriali e politici sempre maggiori.
E da tempo impegnato in una lotta serrata contro l’Isis. Per prendere il controllo anche del pezzo di Libia consegnato al Terrore e per spegnere un focolaio di instabilità che mina nel profondo i suoi piani.
I bombardamenti Usa tendono quindi ad aiutare il governo centrale contro il suo avversario. Consentendo a Serraj di conseguire un successo contro l’Isis che accrescerebbe il suo prestigio interno.
Un successo che attrarrebbe al nuovo governo nuovi ambiti politici, economici e militari, finora avversi (tanti nel caos libico, non solo quelli votati ad Haftar) o recalcitranti.
Non serve allo scopo eradicare del tutto l’Isis dal Paese. Basteranno successi limitati, come ad esempio prendere Sirte, considerata la roccaforte del Terrore.
I bombardamenti tendono anche a mettere Serraj sotto una più stretta tutela di Washington. A detrimento dei tanti interlocutori internazionali del nuovo potere di Tripoli.
Non è solo una questione di geopolitica, pure importante: in ballo c’è anche la gestione del mare di petrolio sul quale galleggia la «scatola di sabbia» libica.
Il nuovo conflitto libico ha anche un altro scopo, inconfessabile: favorire la vittoria di Hillary Clinton alle presidenziali Usa, causa alla quale si è consegnata l’amministrazione Obama.
La campagna contro Gheddafi, fortemente voluta dall’ex Segretario di Stato americano, è stata un evidente insuccesso, dato il caos conseguente. Argomento che il repubblicano Donald Trump sta usando contro la sua rivale.
Alla Clinton serve quindi che la questione libica sia risolta o in via di risoluzione (almeno in apparenza e nella propaganda) prima che le presidenziali entrino nella fase decisiva.
Ed è necessaria anche a lavare una macchia sul suo passato, ovvero l’omicidio del console Usa a Bengasi Christopher Stevens, avvenuta durante il suo mandato al Dipartimento di Stato.
Omicidio avvolto nel mistero, presumibilmente legato a un traffico di armi libiche da dirottare ai jihadisti siriani, rischia di procurare guai alla sua campagna elettorale. I suoi avversari l’accusano di aver abbandonato il funzionario americano al suo destino. Accusa più che infamante.
Un successo, vero o propagandato che sia, della nuova campagna libica potrà chiudere definitivamente l’oscura vicenda: giustizia fatta, caso risolto.
Come detto, le bombe non risolveranno la piaga terrorismo, anzi l’alimenteranno, come evidenzia l’attentato di ieri a Bengasi: 22 i morti di un’autobomba made in Isis che ha fatto strage di soldati di Haftar (bizzarra convergenza parallela con la strategia Usa).
E aumenteranno i migranti diretti verso l’Italia. Danni collaterali scontati, messi evidentemente in conto da chi ha dato il via all’intervento.
Detto questo il caos libico può riservare amare sorprese. Per questo, almeno per ora, gli americani si limitano ai raid aerei: non possono permettersi caduti e bare.
Dati i pregressi e il momento elettorale, le conseguenze per la candidata del partito democratico sarebbero devastanti.