L'incursione delle forze israeliane a Jenin. Ennesima inutile strage
Tempo di lettura: 4 minutiDa ieri le forze israeliane (IDF) stanno conducendo un’operazione militare a Jenin. Da vent’anni, ricordano i media, non si vedevano operazioni tanto massive in Cisgiordania. L’operazione è stata decisa in risposta all’uccisione di quattro coloni e gode del sostegno delle forze di opposizione, nonostante siano ferocemente avverse al governo.
Jenin è stata scelta perché i suoi vicoli e il suo sovraffollato campo profughi offrono rifugio a diverse fazioni palestinesi e da un anno Tel Aviv medita un’operazione su vasta scala per riportarla all’ordine.
Una priorità militare o uno spettacolo per i coloni?
Ne ha scritto ieri Anshell Pfeffer su Haaretz, ricordando come di recente un raid dell’IDF nella città ha incontrato una resistenza inattesa, celebrata – si può aggiungere – da tutti i media vicini alla causa palestinese come una vittoria, nonostante si siano contati sette morti.
E probabilmente quanto sta avvenendo – dieci, finora i morti – ha più a che vedere con quel relativo scacco, che deve essere cancellato, più che non con l’uccisione dei quattro coloni. Infatti, come scrive Pfeffer, i responsabili di tale strage, che sono stati uccisi, “non provenivano da Jenin e sembra che abbiano pianificato l’azione in maniera indipendente”.
Secondo Pfeffer l’operazione è “probabilmente più grande di quanto l’IDF avrebbe previsto se non avesse dovuto dare anche uno spettacolo pirotecnico in favore dei politici”. A spingere per una prova muscolare, infatti, sono le forze di ultra-destra, con il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir che ha parlato di “un’operazione militare per abbattere gli edifici, sterminare i terroristi – non uno o due, ma decine e centinaia, se necessario migliaia”.
Anche l’editoriale odierno di Haaretz afferma che l’IDF era contrario a una prova di forza tanto eclatante, ma a spingere in tale direzione sono stati i ministri del partito di Otzma Yehudit e la “leadership dei coloni”.
Si tratta delle stesse persone, scrive Haaretz “che si abbandonano ai pogrom sotto lo sguardo vigile e incoraggiante del governo; e dei criminali che definiscono gli ufficiali dell’IDF ‘assassini’ e ‘traditori’. Grazie al suo spericolato attivismo, questa frangia di potere è riuscita a costringere il governo ad approvare un’operazione” su larga scala.
“Operazioni come questa – continua Haaretz – alimentano la pericolosa illusione che le radici del terrorismo palestinese risiedano in un particolare campo profughi o in una singola città e che un colpo potente possa distruggere le sue reti”.
Jenin e l’occupazione
“In realtà – continua Haaretz – la motivazione palestinese ad attaccare gli israeliani aumenta ogni volta che si ampliano le aree di attrito tra ebrei e palestinesi in Cisgiordania. C’è una lunga lista di meccanismi oppressivi che i palestinesi subiscono per mano delle istituzioni israeliane e dei coloni”.
Tali dinamismi “sono il furto dei terreni e delle proprietà, le restrizioni al movimento, le centinaia o migliaia di arresti, di uccisioni di innocenti, la creazione di un numero sempre maggiore di insediamenti [in territorio palestinese ndr], la legalizzazione degli avamposti dei coloni, gli attacchi incendiari a case e automobili, l’eradicazione di alberi e la distruzione dei raccolti”.
“Date queste orribili manifestazioni dell’occupazione e dell’illegalità dei coloni, Israele non può aspettarsi calma e tranquillità in un’area che anche lo Stato definisce sotto tfisa lokhmatit , la traduzione ebraica standard per il termine ‘occupazione di guerra’, scelta perché priva della parola ebraica che si usa per occupazione: kibush“.
“Finché si perpetuerà tale situazione, continuerà anche la routine quotidiana dell’antiterrorismo. La soluzione non si trova nei vicoli del campo profughi di Jenin o nella costruzione di nuovi insediamenti. Il primo ministro e il ministro della difesa devono fermare l’operazione di Jenin, che sta già coinvolgendo i soldati dell’IDF in pericolosi scontri urbani e impegnarsi per trovare accordi appropriati con l’Autorità palestinese”.
Solo un anello di una lunga catena di sangue
Presto l’operazione Jenin si chiuderà, scrive sempre su Haaretz Jack Khouri, con arresti, morti e con la vittoria di Israele. Nessuno si interrogherà sulle vittime, perché “ogni palestinese è un potenziale pericolo per la sicurezza israeliana ed è quindi un obiettivo legittimo”.
Tutto tornerà alla normalità e “nessuno mostrerà interesse per il futuro o immaginerà uno schema per un accordo, perché Israele desidera consolidare una realtà nella quale i palestinesi si abituino a vivere sotto l’occupazione e il controllo israeliano”.
Da tempo immemore si susseguono operazioni simili, continua il cronista, con le forze israeliane che hanno inanellato una serie innumerevole di apparenti successi, che però non hanno fatto altro che alimentare la rabbia e la frustrazione dei palestinesi, così “ognuna di queste operazioni ha solo aperto la strada a nuovi scontri e ad altro sangue”.
“Israele può riuscire a portare una sorta di calma limitata, ma le immagini di Jenin saranno un terreno fertile per allevare un’altra generazione senza futuro. Nel frattempo, Israele schiaccia l’Autorità palestinese che dovrebbe controllare l’area. Nelle condizioni attuali, anche questa operazione non è che un altro anello della lunga catena di sangue”.
L’assassinio di Rabin, la fine di una speranza
Non c’entra nulla con l’operazione di Jenin, ma è interessante notare una querelle sorta all’interno dell’establishment israeliano. In una sua recente biografia, Netanyahu ha rivelato un dettaglio sull’omicidio Rabin, osservando che “Avishai Raviv, infiltrato come agente provocatore all’interno dell’estrema destra, è stato incaricato di incitare la destra contro Rabin, usando manifesti stampati dallo Shin Bet” che ritraevano Rabin con indosso l’uniforme nazista.
Lo scrive Timesofisrael, ricordando che “Raviv, l’agente dello Shin Bet, era stato in contatto con Amir prima dell’omicidio”. L’estremista di destra Ygal Amir, tutt’ora in carcere, assassinò Rabin il 4 novembre 1995, eludendo in maniera imprevista la scorta. Insieme al premier israeliano morirono anche gli accordi di Oslo, che avrebbero portato la sospirata pace tra ebrei e palestinesi.
Lo ricordiamo non tanto per accreditare la versione di Netanyahu, che ovviamente ha fatto infuriare lo Shin Bet – i cui dirigenti, di oggi e di ieri, hanno chiesto al premier di ritrattare e scusarsi -, quanto per ricordare che è esistita un tempo una stagione di speranza per il martoriato popolo palestinese. Aiuta ad conservare una pur residuale speranza nel buio attuale.