L'Iran, l'Arabia Saudita e il terrorismo islamico
Tempo di lettura: 2 minutiThomas L. Friedman sulla Repubblica del 3 settembre sintetizza un articolo del Washington Post della settimana scorsa, che riportava una lettera inviata al Congresso Usa firmata da circa duecento, tra «generali e ammiragli in pensione». In essa si chiedeva di rigettare l’accordo sul nucleare iraniano perché Teheran sarebbe il primo sostenitore del terrorismo internazionale.
In realtà, ribatte Friedman, «il titolo di maggiori “foraggiatori dell’islam radicale” non spetta agli iraniani. Neanche lontanamente. Spetta al nostro alleato putativo, l’Arabia Saudita».
Infatti, prosegue il cronista, «nulla è stato più deleterio per la stabilità e la modernizzazione del mondo arabo dei miliardi e miliardi di dollari che i sauditi hanno investito a partire dagli anni 70 per spazzare via il pluralismo dell’islam – i sufi, i sunniti moderati, gli sciiti – promosso dall’establishement religioso saudita».
Ricordando quindi come l’Arabia Saudita sia «alleata degli Stati Uniti su molti temi», scrive che Washington non li ha «mai chiamati a renderne conto, perché siamo drogati del loro petrolio, e i drogati non dicono mai la verità ai loro spacciatori».
Titolo articolo: Sono i sauditi il vero pericolo non Teheran.
Nota a margine. Ineccepibile analisi, anche se forse, almeno riguardo al passato, sarebbero da approfondire le divisioni interne che hanno travagliato la monarchia saudita.
Resta che se i sauditi hanno fatto e fanno quel che scrive Friedman (anche se non sono gli unici, basti pensare al Qatar) è perché ciò gli è stato permesso anzi è stato incoraggiato. Perché il processo di esportazione del «puritanesimo islamico» (ancora Friedman) di stampo wahabita ha incontrato l’interessato consenso di quanti, in Occidente e altrove, hanno immaginato e operato per un cambiamento geopolitico all’interno del mondo islamico. Esemplare in tal senso la guerra siriana.