L'Iran, re Bibi e il "popolo eterno" di Israele
Tempo di lettura: 3 minuti«Ecco un possibile scenario: Israele attaccherà l’Iran contrariamente alla ferma presa di posizione del presidente Obama che quasi supplica di lasciare questa incombenza agli Stati Uniti d’America. E questo perché? Perché Benjamin Netanyahu ha una linea di pensiero e una visione storica secondo le quali — riassumendo a brevi linee — Israele è il “popolo eterno” mentre gli Stati Uniti, con tutto il rispetto, sono una specie di Assiria o di Babilonia, di Grecia o di Roma dei giorni nostri. Vale a dire: noi siamo per sempre, destinati a rimanere, mentre loro, nonostante tutto il potere che possiedono, sono momentanei, transitori, motivati da considerazioni politiche ed economiche limitate ed immediate, preoccupati delle ripercussioni che un eventuale attacco potrebbe avere sul prezzo del petrolio e sui risultati elettorali. Noi invece sussistiamo nella sfera dell’“Israele eterno” e portiamo in noi una memoria storica in cui balenano miracoli e imprese di salvezza che vanno oltre la logica e i limiti della realtà. Il loro presidente è “un’anima candida” che crede che i nemici ragionino in maniera razionale come lui mentre noi, già da quattromila anni, ci troviamo ad affrontare le forze più cruente e gli istinti umani più incontrollabili e oscuri della storia e sappiamo bene come comportarci per sopravvivere in queste zone d’ombra». Così lo scrittore David Grossman sulla Repubblica del 3 agosto, che prosegue: «Chi è a favore di un intervento contro l’Iran si muove lungo un asse i cui estremi sono “o la bomba atomica iraniana o il bombardamento dell’Iran” e dal quale pende un’insegna: “Per sempre divorerà la spada” (II Samuele, 2, 26).
I leader israeliani sono talmente prigionieri di questo ragionamento automatico che sembra che, dinanzi a qualunque dilemma o a qualunque decisione relativa alla sicurezza, un verdetto celeste o una legge di natura condanni quasi sempre Israele a muoversi solo ed esclusivamente tra “o la bomba o il bombardamento”. Ad aggredire o a essere aggredito. Certo, un Iran dotato di armi nucleari rappresenta un pericolo reale, non è una paranoia del governo israeliano. Ma nella situazione attuale esistono altre direzioni di movimento, altre possibilità di azione – o di inazione. E naturalmente esiste l’inequivocabile promessa americana che l’Iran non avrà armi nucleari. Ma Israele sembra già essere al culmine di un processo in cui agiscono forze ben note e più potenti di lui, quasi primordiali, alimentate dalla percezione storica ricordata in precedenza che fa sì che di solito i timori si realizzino e che calamita verso situazioni di minaccia esistenziale.
Quindi, con maggiore enfasi, si pone la domanda: perché ministri e alti dirigenti di tutti i settori della sicurezza – quelli ancora in carica, non solo quelli del passato – non si alzano a dire la loro? Quelli che in conversazioni private si oppongono all’iniziativa di un attacco, che ritengono che un’aggressione israeliana prorogherebbe soltanto di poco la nuclearizzazione dell’Iran e temono le conseguenze a lungo termine di un’aggressione simile per Israele, per la sua stessa esistenza. Perché non si alzano adesso, quando ancora è possibile, per dichiarare: noi non collaboreremo con questo delirio megalomane, con questa disastrosa concezione messianica? La fedeltà al “sistema” è forse più importante della fedeltà a ciò a cui hanno dedicato la vita: la sicurezza e il futuro di Israele? Un’iniziativa di questo tipo sarebbe il gesto più significativo che potrebbero fare oggi per Israele, per la sua sicurezza e il suo futuro». Titole dell’articolo L’Iran, re Bibi e il “popolo eterno” di Israele.