L'Iraq in attesa delle bombe Usa
Le milizie irachene di Kata’ib Hezbollah, alleate di Teheran, hanno annunciato che sospenderanno gli attacchi contro le basi americane. L’annuncio è arrivato dopo che l’ennesimo attacco contro tali basi – iniziati con la guerra di Gaza – ha ucciso tre soldati. Nelle stesse ore dell’annuncio di Kata’ib Hezbollah, l’intervento nel quale Biden ha dichiarato che erano stati scelti gli obiettivi della ritorsione Usa.
Pressioni iraniane e tacite intese con gli Usa
Il New York Times ha riferito che, mentre gli Usa studiavano la ritorsione, sono intercorsi negoziati segreti tra l’Iran e le milizie irachene, con Teheran che ha inviato nel Paese confinante “il generale Esmail Qaani, leader della Forza Quds, una divisione delle Guardie rivoluzionarie che lavora con i gruppi dell’Asse fuori dai confini dall’Iran”. Il NYT riporta il comunicato di Kata’ib Hezbollah, nel quale si spiega che, nonostante l’alleanza strategica con l’Iran, essa non concorda con Teheran le sue operazioni e che la decisione di riporre le armi nella fondina è stata concordata anche con il governo iracheno. Al Manar aggiunge che è stato dato ordine alle milizie di difendersi solo in modalità “passiva” nel caso di un attacco degli Stati Uniti.
Ma in Iraq sono attive anche le milizie di Qais al-Khazali e Hadi al-Ameri le quali, pur avendo preso parte all’incontro con il generale iraniano, non hanno aderito alla tregua (vedi NYT succitato). Riceveranno la loro dose di bombe.
Più che probabile che le pressioni iraniane siano corse in parallelo a un negoziato segreto tra Iran e Stati Uniti per concordare modalità di de-escalation, anche perché la Casa Bianca ha dichiarato apertamente di non volere una guerra con Teheran.
Non sarebbe nulla di nuovo. Ricordiamo che quando gli Usa uccisero il Capo delle guardie rivoluzionarie, il generale Qassem Soleimani, l’Iran, obbligato a reagire, rispose con un attacco concordato nel segreto con gli Stati Uniti (Piccolenote).
Salvi, per ora, i negoziati sul ritiro Usa dall’Iraq
Insomma, probabilmente le bombe cadranno su obiettivi più o meno concordati nel segreto, evitando un attacco diretto contro l’Iran, contro il quale Biden si è comunque scagliato perché fornisce armi alle milizie di cui sopra (anche le armi ucraine arrivano dalla Nato, non per questo la Russia bombarda i Paesi dell’Alleanza).
Importante la dichiarazione di Hisham al-Rikabi, portavoce delle autorità di Baghdad, il quale ha detto che la tregua è volta a “prevenire un’escalation e a garantire la finalizzazione dei negoziati sul completamento del processo di ritiro della coalizione internazionale dall’Iraq“.
I negoziati per il ritiro delle forze americane dall’Iraq erano stato avviati ufficialmente proprio il giorno dell’attacco alla base Usa e rischiavano di saltare a causa di esso. Quanto dichiarato da al-Rikabi segnala che dovrebbero proseguire nonostante tutto.
Peraltro, en passant, si può notare che gli effetti devastanti dell’attacco alla base Usa potevano essere evitati con facilità, come avvenuto per i tanti che lo hanno preceduto. Una sfortunata combinazione ha fatto sì che gli addetti alle difese abbiano confuso il drone nemico con uno “made in Usa“…
Le forze di occupazione americane in Siria e Iraq
Al di là del bizzarro disguido difensivo, è di interesse un articolo pubblicato da Daniel MacAdams sul sito del Ron Paul Institute, nel quale il cronista si interpella sulla querelle nata subito dopo l’attacco, che sintetizza così: “Il Comando Centrale degli Stati Uniti sostiene che l’attacco ha colpito una struttura all’interno della Giordania, ma la Giordania e la ‘Resistenza Irachena’, che si è presa il merito dell’attacco, affermano che la struttura americana era all’interno del confine della Siria”.
“Perché importa? – prosegue McAdams – La Giordania è un alleato degli Stati Uniti e come tale le truppe americane di stanza sul suo territorio – sebbene a mio avviso la cosa sia estremamente imprudente – non stanno occupando illegalmente un territorio straniero”.
“Invece, se, come è probabile, questa struttura si trovava all’interno del confine siriano, significa che sono state colpite le truppe statunitensi che occupavano illegalmente il territorio siriano. In altre parole, una forza di occupazione straniera è stata attaccata da persone che difendevano la propria patria. E questa è una storia molto diversa e sulla quale i guerrafondai di Washington preferirebbero che gli americani in patria non riflettessero”.
Ma, come si sa, la realtà conta poco in geopolitica, dove conta il Potere. L’attacco è avvenuto in Giordania, come da versione ufficiale, e le bombe Usa saranno comunque sganciate.
Il ritiro delle truppe Usa dal Medio Oriente
Nell’articolo di McAdams anche un cenno al ritiro delle forze americane dall’Iraq, opzione che non nasce da oggi. Infatti, “l’Iraq ha già chiesto agli Stati Uniti di rimuovere immediatamente le sue truppe di occupazione e il parlamento iracheno ha votato quasi quattro anni fa una mozione perché le truppe americane lasciassero il paese. L’establishment [di Washington] DC sosteneva che l’invasione dell’Iraq del 2003 mirava a ‘ripristinare la democrazia’, ma quando il parlamento iracheno democraticamente eletto ha votato a favore della fine dell’occupazione militare statunitense del paese… Washington ha detto ‘no’ alla democrazia”.
Quanto sta avvenendo adesso, l’attacco alle basi Usa e la ritorsione americana, poteva essere evitato, se solo Washington avesse rispettato la sovranità di uno Stato libero e avesse agito in conformità con i suoi proclami sul rispetto delle regole internazionali, branditi come una clava contro i suoi antagonisti.
Peraltro, le forze schierate in Siria, delle quali nei giorni precedenti si era annunciato il ritiro in parallelo con quelle irachene, difficilmente torneranno in patria, a rimarcare le tragiche contraddizioni di cui sopra.
Il niet fermo e deciso al ritiro dalla Siria è arrivato dalla vice-segretaria di Stato Victoria Nuland, che ha parlato in nome e per conto dei bellicosi neoconservatori, quelli che hanno portato gli Usa a invadere l’Iraq nel 2003 (la Nuland allora lavorava nell’ufficio del vice-presidente Dick Cheney, al tempo uomo di punta di tale circolo).
Il fatto che la Nuland sia venuta allo scoperto in modo tanto deciso fa immaginare che l’ipotesi del ritiro era stata dibattuta seriamente in seno all’amministrazione americana. Tant’è.