L'Occidente e il dialogo con i nemici
Tempo di lettura: 3 minutiL’occidente deve imparare a dialogare con il nemico, questo il titolo di un articolo apparso sul Corriere della Sera del 5 luglio, anticipazione di un saggio di Charles A. Kupchan (docente di Relazioni internazionali alla Georgetown University) pubblicato di seguito sulla rivista Aspenia. Così Kupchan: «La dimensione della politica interna è tornata al centro della scena, per almeno due ragioni. La prima è che negli Stati Uniti e in altri Paesi sono in calendario, nel 2012, elezioni cruciali. La seconda, di gran lunga più importante, è che la globalizzazione sta causando in tutto il mondo sconvolgimenti economici e grande malcontento sociale, ponendo i governi di fronte a problemi nuovi. A livello nazionale, queste dinamiche interne si ripercuotono in modo particolarmente accentuato sulla sfera della politica estera e sulle capacità di governance. Dalla difesa della solidarietà transatlantica alla gestione delle relazioni Usa-Cina, passando per le conseguenze strategiche della Primavera araba, a politici e diplomatici non mancano certo le sfide; ma ancora più difficile sarà governare la dimensione politica interna della diplomazia internazionale, in un mondo nel pieno di un tumultuoso risveglio […]. Non è una coincidenza che Stati Uniti ed Europa, insieme al Giappone, si trovino simultaneamente in questa condizione di disfunzionalità politica. Comune è il male perché comune ne è la causa: la globalizzazione. Questa sta producendo, nelle società aperte dell’Occidente, un crescente divario tra ciò che gli elettorati chiedono ai governanti e ciò che questi sono in grado di offrire. Il contrasto tra la crescente domanda di buongoverno e il progressivo ridursi dello stesso sta compromettendo pericolosamente il potere e la funzionalità del mondo occidentale. Se la politica interna condizionerà le relazioni fra amici, essa giocherà un ruolo ancora più importante nei tentativi di costruire rapporti più distesi con regimi “nemici”. Un tratto distintivo della politica estera di Obama è stata la prontezza nell’intavolare un dialogo con gli avversari dell’America: il presidente ha perseguito il “reset” dei rapporti con la Russia, ha puntato a stemperare la rivalità con la Cina, ha stabilito relazioni più strette con il Myanmar e ha teso la mano a Iran, Corea del Nord e Cuba. In tutti questi casi, il fronte interno si è rivelato non meno ostico dello sforzo diplomatico: parlare col nemico comporta infatti un rischio politico elevato, se gli avversari in patria sono sempre pronti a dipingere i tentativi di dialogo come una resa […] Nel dialogo con gli avversari, gli ostacoli che Obama si trova a fronteggiare in patria non sono minori di quelli che lo attendono nei Paesi con cui sta tentando di costruire un rapporto più costruttivo […]. Osservatori e politici occidentali dovrebbero deporre l’illusione che la diffusione della democrazia in Medio Oriente implichi automaticamente l’affermazione dei valori occidentali. È anche probabile che la voglia di riscatto e dignità che è stata alla base della richiesta di democrazia si traduca in uno spirito di rivalsa nei confronti degli Stati Uniti, dell’Europa e di Israele: in un sondaggio effettuato nella primavera 2011 (dopo la caduta di Mubarak), ad esempio, oltre il 50% degli egiziani si diceva favorevole ad annullare il trattato di pace stipulato con Israele nel 1979. In una regione come il Medio Oriente, a lungo dominata da potenze straniere, più democrazia può benissimo comportare una drastica riduzione della cooperazione strategica con l’Occidente. In gran parte del pianeta, dunque, le dinamiche politiche interne tornano al centro della scena. Forse è giusto così, ma questo renderà molto più difficile governare gli affari di Stato. Allacciamo le cinture».