L'ostinazione di Biden
Biden resiste con le unghie e con i denti, tanto da inviare una missiva ai membri del suo partito che siedono al Congresso per riconfermare la sua intenzione di non mollare. Solo l’Onnipotente potrebbe farmi cambiare idea, ha detto in una recente intervista.
L’onnipotente, ovvero l’establishment dei media democratici
Simpatico, sul tema, l’editoriale del Wall Street Journal, secondo il quale l’Onnipotente è sceso in campo. Non il Dio dei cieli, qualcosa di più terreno, spiega il WSJ, ovvero “la cosa più vicina all’Onnipotente nella politica americana: l’establishment dei media democratici. Vogliono che lei se ne vada, signore, e la domanda è quando lo capirà e obbedirà”.
Per tutto questo tempo, ricorda il WSJ, i media dell’establishment hanno “coperto” il declino fisico-cognitivo del presidente, nonostante fosse ormai evidente ai cittadini americani, ma “il dibattito [con Trump ndr] ha costretto l’establishment ad ammettere la verità che non poteva più negare. The Times, l’Atlantic, il New Yorker, la CNN, Morning Joe, Politico, Axios, i donatori di Hollywood e Wall Street: la gang è tutta qui e si muove in sincronia per coprire le tracce dei suoi insabbiamenti. Ora che il signor Biden appare perdente rispetto a Donald Trump, Scranton Joe deve andarsene” (Scranton è la cittadina della Pennsylvania che gli ha dato i natali).
Questa la battaglia in corso, secondo il WSJ, questi i dialoghi che si stanno svolgendo “nel retrobottega” e Biden alla fine sarà costretto a lasciare. “Sarà elogiato come se fosse George Washington alla convention di Chicago” e al suo posto verrà scelta Kamala Harris. Certo, la prescelta ha tanti handicap, dati gli evidenti deficit, ma il tema delle identità all’interno del partito “è talmente forte che avranno paura di togliere la nomination a una donna di una minoranza”.
Il cartonato di Biden
In una nota pregressa avevamo scritto che ormai l’establishment del partito preferiva un cartonato a Biden e la Harris è più o meno questo: un cartonato che gli consentirà comunque di competere per vincere.
Al di là, di grande interesse un cenno dell’editoriale del WSJ, che annota come a sostenere Biden contro tutti sia Barack Obama, anche se ultimamente è sempre più silenzioso. Anzi, il giornale spiega che una recente dichiarazione di segno contrario di David Axelrod, già consigliere dell’ex presidente, segnalerebbe un ripensamento del suo capo.
In realtà, l’attribuzione ad Axelrod del pensiero di Obama appare alquanto forzosa. Basta leggere un articolo del New York Times di oggi: “Mentre alcuni alleati sussurrano di voler abbandonare Biden, i democratici neri si stringono attorno a lui”. E il faro dell’elettorato nero resta Obama, il quale già da presidente ha imparato perfettamente l’arte della dissimulazione, non potendo scontrarsi con i potenti del suo partito in campo aperto.
Certo, se l’alternativa a Biden fosse Michelle l’opinione di Obama cambierebbe, ma ad oggi non ci sono segnali in tal senso. I potenti del partito, dovettero subire Obama, che piegarono ai propri desiderata, ma non del tutto (infatti, gli fece sfumare l’intervento diretto in Siria e dovettero inghiottire l’accordo sul nucleare iraniano). Non vogliono ripetere l’esperienza passata con la moglie, che temono più di Barack perché più determinata dell’ondivago marito.
Così lo scontro rimane aperto. Resta il mistero del perché Biden – e Obama con lui – si sia tanto intestardito nella candidatura. La spiegazione che sia attaccato tanto al potere regge fino a un certo punto, dal momento che sa perfettamente che, anche in caso di vittoria, dovrebbe ritirarsi ai giardinetti neanche un mese dopo.
Per spiegare una simile ostinazione, tanto apparentemente irragionevole da apparire del tutto inspiegabile, forse serve ricorrere all’impensabile, come impensabile era, fino a solo due anni fa, l’idea di scatenare la terza guerra mondiale (tanto che, all’inizio della guerra ucraina, a quanti incalzavano Biden perché ingaggiasse l’America direttamente contro la Russia, rispondeva: “Volete la terza guerra mondiale?”).
L’implicito e il rischio Terza guerra mondiale
Certe prospettive non si possono esplicitare. Per restare nell’implicito, ricordiamo quanto ebbe a dire Zelensky in un’intervista al New York Times il 21 maggio scorso: Putin “è una persona irrazionale. Perché una persona razionale non può scatenare una guerra su vasta scala contro un altro Stato. È irrazionale, oppure sapeva che non ci sarebbero state conseguenze per lui, il che significa che c’era stato un dialogo con altri paesi. E non voglio nemmeno pensarci, perché allora non è una partnership, è un gioco alle spalle l’uno dell’altro, ed è un tradimento, un tradimento assoluto“.
E, sempre per restare nell’implicito, invero singolare quanto ha detto Biden due giorni fa, cioè che “gli andrebbe bene anche perdere contro Trump, ‘a patto di riuscire a dare il massimo’” (Businessinsider).
Ultima annotazione d’obbligo: la feroce rivolta dell’establishment rende più improbabile l’opzione Kennedy. Attribuire l’eventuale assassinio di Biden a un pazzo o a un sostenitore di Trump potrebbe apparire poco convincente.
Al di là dell’enigmatico senso di Biden per le presidenziali e delle variabili in campo, da segnalare che resta il mistero sul vicepresidente di Trump, che questi ancora non ha scelto. Finora si è limitato a evocare di volta in volta nomi graditi ora a una parte ora all’altra dei suoi sponsor più influenti.
Non si tratta però esclusivamente di nomi. Deve decidere tra una scelta di compromesso, come fece al suo primo mandato con Mike Pence, gradito all’establishment, o una scelta di rottura, cioè qualcuno a lui allineato. E, anche in quest’ultimo caso, sulla portata della rottura, dal momento che alcune figure Maga sono meno sgradite di altre a tale ambito.
Un falco anti-cinese come Marco Rubio potrebbe fare la gioia di Steve Bannon, un Tucker Carlson, per dire un nome più che improbabile, scontenterebbe i tanti Bannon che si annidano nel partito.