Mandato di arresto per Netanyahu e Gallant: non solo un simbolo
Nonostante tutte le pressioni debite e indebite subite da parte di Israele e Stati Uniti, il Tribunale penale internazionale ha spiccato mandati di cattura contro il premier israeliano Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Gallant per crimini di guerra, riconoscendo fondate le accuse mosse dalla Procura presso il Tribunale medesimo.
La rabbia di Israele
Una sentenza simbolica, certo, dal momento che Gallant non è più ministro, essendo stato estromesso dal governo dallo stesso Netanyahu, e il premier israeliano si guarderà bene dal visitare i Paesi a rischio, nei quali la sentenza potrebbe essere rispettata da qualche magistrato. Peraltro, è possibile che si muova presto per organizzare un’altra visita, con annessa standing ovation, al Congresso Usa, che non riconosce la giurisdizione del Tribunale (a proposito dell’ordine basato sulle regole, tanto brandito da questa amministrazione Usa).
Ma, se certo la sentenza resta simbolica, ormai appartiene alla Storia, che ha i suoi tempi e le sue scadenze. E se anche non riuscirà a fermare gli orrori di Gaza, è un passo, ancorché minimale, che va in quella direzione.
Certo, Israele continuerà a negare con tutte le sue forze, come sta accadendo a ogni livello – da Netanyahu, ovviamente, al presidente della repubblica Isaac Herzog, ai leader del partito di opposizione – e scatenerà l’hasbara, la sua propaganda aggressiva, ai massimi livelli perché il mondo rigetti la sentenza, abusando delle accuse di antisemitismo, ma il danno di immagine è ormai arrecato.
Un po’ quel che accade per la Turchia, che nega in maniera feroce il genocidio armeno senza però intaccare il giudizio della Storia e dei popoli. Inoltre, e per la prima volta da anni, Israele subisce un vulnus alla sua impunità: è pochino, certo, ma non per questo insignificante.
Peraltro, se il Tribunale ha emesso tale sentenza, è perché aveva alle spalle un potere d’Occidente che ha difeso l’organismo e i suoi giudici dalle pressioni di cui sopra. Il che vuol dire che c’è un residuo di resistenza a certa prepotenza imperante.
Conseguenze
Sebbene solo simbolica, la sentenza del Tpi ha alcune conseguenze pratiche, che elenchiamo in ordine sparso. La prima, è che benché i crimini di guerra siano stati ascritti ai due uomini politici, a commetterli praticamente sono stati i militari israeliani, come comprova il fatto che uno dei due incriminati è il ministro della Difesa. È ormai provato il fatto che a Gaza sono stati commessi crimini di guerra contro i palestinesi.
La seconda è che, dopo tale decisione, l’inchiesta della Corte di Giustizia dell’Aja, che deve decidere se a Gaza si è consumato un genocidio, è più probabile che decida di condannare Israele per quello che è considerato, a ragione, il più orrendo dei crimini di guerra.
La terza, più pratica, è che le tante organizzazioni internazionali che stanno inutilmente facendo pressioni sui governi occidentali per fermare l’invio di armi, chiedere il cessate il fuoco e altro, dopo tale decisione hanno una leva più forte, anche perché tutti i Paesi europei hanno sottoscritto gli accordi di Roma che hanno dato vita al Tribunale.
La quarta è che probabilmente Gallant non potrà più aspirare al ruolo di primo ministro, opzione sulla quale si è spesa fino all’esaurimento l’amministrazione Biden. Dopo aver avuto un premier sul quale pesano crimini di guerra, Israele vorrà probabilmente un successore un po’ più libero.
Non sappiamo se il vulnus arrecato a Gallant sia un bene o un male: meglio di Netanyahu è di certo – anche perché l’attuale premier israeliano ha una forza di coercizione enorme rispetto all’Occidente a motivo del suo prolungato potere – ma si spera che Israele possa esprimere qualcosa di meglio dell’ex ministro della Difesa.
Il veto Usa al cessate il fuoco
Significativo che la sentenza del Tribunale penale internazionale giunga il giorno successivo all’ennesimo veto posto dagli Stati Uniti all’ennesima risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiedeva il cessate il fuoco a Gaza. Mai l’Impero d’Occidente era caduto così in basso come nell’amministrazione Biden a trazione Clinton-neocon.
Ma la connivenza degli Stati Uniti nei crimini di Gaza, che discende da un disinteresse per il tragico destino dei palestinesi oltre che dai legami con Tel Aviv, ha anche una spiegazione storica: in fondo l’Impero statunitense si fonda su un genocidio, quello dei nativi americani.
Nonostante gli ipocriti mea culpa, tra cui spiccano le storiche scuse formali ai nativi del presidente Biden profuse, per tragica ironia, solo alla fine dello scorso mese, quella macchia oscura resta come una sorta di peccato originale dal quale gli States non hanno mai fatto nulla per emendarsi.