Modi e il meraviglioso incontro con Putin
Tempo di lettura: 3 minuti“Ho avuto un incontro meraviglioso con il presidente Putin. Abbiamo avuto modo di discutere su come promuovere la cooperazione India – Russia in settori come il commercio, l’energia, la difesa e altro. Abbiamo discusso anche di altre questioni bilaterali e globali”. Questo tweet, relativo all’incontro tra Vladimir Putin e Narendra Modi a Samarcanda (a margine del summit della Sco), si può leggere sull’account ufficiale del presidente indiano e colpisce non poco.
Russia isolata? Il “meraviglioso” di Modi
Anzitutto per quel superlativo che certo non è casuale: quel “meraviglioso” (“wonderful”, proprio così) non lascia spazio a interpretazioni riguardo il senso del premier indiano per Putin ed è un rigetto netto e reciso della narrazione occidentale sull’asserito tiranno del Cremlino.
Si può notare come nel testo si evidenzi la cooperazione energetica tra i due Paesi, altro evidente smacco all’Occidente che ha tentato in tutti i modi di far aderire New Dehli alle sanzioni contro il petrolio e il gas russi.
Non solo Modi ribadisce in tal modo che l’India continuerà a seguire la sua strada, ma che è addirittura intenzionata a implementare l’importazione di energia (che poi rivende, come la Turchia, all’Occidente a prezzi maggiorati; tale l’ipocrisia nostrana).
Infine, si nota come non vi sia alcun cenno all’Ucraina, che certo è stata al centro del dialogo con lo zar: evidentemente per Modi è una controversia dalla quale vuole preservare il suo Paese, tenendolo fuori dalle polemiche e dagli attriti del caso.
Di fatto, quello di Modi è un assist allo zar, alquanto stridente rispetto alla narrazione che vuole che lo zar sia isolato: se si mette insieme la popolazione indiana e quella cinese, altro Paese che non aderisce alle sanzioni, e lasciando fuori Brasile e altri Paesi popolosi di questo mondo che condividono tale posizione, si tratta di quasi metà dell’umanità. Un isolamento alquanto affollato.
Vincitori e vinti
Così veniamo a un articolo del New York Times. Questo il titolo: “In un angolo del Kosovo, gli applausi risuonano ancora per Putin”. Sottotitolo: “Molte persone di etnia serba, che nutrono rancore contro la NATO per la campagna di bombardamenti del 1999 che ha cacciato la Serbia da questo territorio, vedono la Russia del presidente Vladimir Putin come un potenziale salvatore”.
Insomma, anche al Nyt si sono accorti, anche se nel piccolo, che quanti in questi venti anni hanno subito le bombe americane non sono poi così favorevoli alla Nato. Se il giornale della Grande Mela ampliasse gli orizzonti, scoprirebbe quanti nel mondo condividono tale ritrosia a vedere nell’Occidente la fulgida luce della libertà e della democrazia.
Si potrebbero interpellare a tale proposito quasi tutti i Paesi arabi, più o meno tutti i Paesi dell’America Latina, che ancora portano i segni delle dittature degli anni della Guerra Fredda e delle ingerenze indebite successive, o anche i Paesi africani, che ben conoscono le Regole brandite come un totem dalla Politica d’Occidente e che sanno come tali Regole hanno uno scopo precipuo per quanto riguarda la loro sorte, preservare i privilegi degli ex colonizzatori e tenere loro nel sottosviluppo.
Lo spiega bene Darren Walker, sempre sul New York Times, anche se in modo alquanto blando – d’altronde non si può eccedere in critiche all’Occidente su un media mainstream – in un articolo che spiega che “I nostri predecessori hanno costruito un mondo di vincitori e vinti”.
Walker sostiene che tale costrutto perverso, realizzato attraverso le istituzioni internazionali – Banca mondiale, Fondo monetario etc – che non hanno fatto altro che preservare il regime coloniale pregresso, può essere cambiato e sarebbe questo il momento di cambiarlo. Pio desiderio: come chiedere ai ladri di rimettere a posto una casa che hanno svaligiato per decenni…
Resta appunto un mondo di vincitori e vinti. E in tale mondo si gioca la narrazione che vede gli Stati Uniti, e l’Europa a rimorchio, nella parte dei buoni e i russi dalla parte dei cattivi. Ed è questo il motivo per cui tale narrazione non funziona come sperato dagli strateghi di Washington.