Nato - Ucraina: i proclami solenni e le tacite intese con Mosca
Fuoco e fiamme al vertice Nato ma, al di là dell’isteria di cui è ormai preda la leadership occidentale, fotografato dallo psicodramma che si sta consumando all’interno del partito democratico sulla candidatura o meno di Biden, poco o nulla è successo.
Nato, il partito della guerra
La richiesta del partito della guerra, avanzata dal loro burattino Zelensky, di formalizzare in qualche modo l’ingresso dell’Ucraina nella Nato si è ridotta a un comunicato nel quale tale sviluppo è previsto come “irreversibile”. E si sa quanto sia relativa l’irreversibilità nei processi geopolitici.
Un’analoga relatività, peraltro, mina le tante manovre poste in essere per rendere impossibile la revoca del sostegno Nato da parte di futuro un inquilino della Casa Bianca.
Così Zelensky si è dovuto accontentare di tornare a casa con in tasca impegni solennissimi e qualche arma in più, in particolare qualche Patriot che arriverà col tempo e andrà al massimo a sostituire i pochi e insufficienti Patriot rimasti a disposizione della Difesa ucraina, che nel frattempo saranno distrutti.
Eppure il presidente ucraino ha evitato di lanciarsi in intemerate contro i suoi solerti sostenitori – memore delle reprimende sull’ingratitudine ricevute in passato quando ha imboccato tale improvvida strada – anche se non ha mancato di sollevare querule lamentele sul fatto che “tutti aspettano novembre”, cioè l’esito delle elezioni americane, mentre sarebbe “tempo di uscire dall’ombra, di prendere decisioni forti, di agire e di non aspettare novembre o qualsiasi altro mese” (New York Times).
L’ex comico vorrebbe dettare i tempi del mondo, ma non è padrone del Tempo, né lui né i suoi bellicosi sponsor. E la scadenza del 5 novembre resta ineludibile. Così, al vertice Nato l’attenzione era più focalizzata sulla salute di Biden che non sulla guerra ucraina.
E se ovviamente le condizioni psico-fisiche del senescente presidente Usa e l’incertezza sul futuro hanno accresciuto vieppiù l’isteria dei partecipanti al Meeting, allo stesso tempo hanno aperto spazi a quelle parte di leadership occidentale che ancora conserva un residuo di lucidità, tanto che, in parallelo agli impegni bellici solennissimi, si sono registrate spinte frenanti.
Se telefonando…
Il 10 luglio, infatti, il Capo del Pentagono Lloyd Austin e il ministro della Difesa russo Andrei Belousov hanno avuto una nuova conversazione telefonica, che segue quella del 15 giugno scorso, nella quale non avranno certo parlato delle condizioni metereologiche dei cieli ucraini.
In parallelo, il Pentagono ha fatto sapere che non ha dato alcuna autorizzazione agli ucraini per colpire in profondità il territorio russo con i suoi missili (Strana). Comunicazione arrivata in contemporanea con un’analoga dichiarazione da parte del Regno Unito (Telegraph).
Nel frattempo continua il balletto degli F-16, che avrebbero dovuto arrivare nel teatro di guerra più di un anno fa e che ancora latitano. Di ieri la notizia che il Belgio è pronto a inviare ben trenta (trenta!) F-16 in Ucraina, che arriveranno “non prima del 2028“…
Non si tratta di concessioni alla Russia, ma di presa d’atto della realtà: Mosca aveva fatto sapere che non avrebbe accettato passivamente di essere bombardata con armi americane; quanto agli F-16, la recente campagna delle forze russe contro le basi aeree ucraine hanno reso più chiaro quanto paventato da tanti analisti al momento in cui si era deciso di inviarli, cioè che potrebbero esser distrutti prima ancora di essere impiegati in battaglia.
Così uno scenario probabile, anche se esposto ai venti della pazzia che soffiano forti in Occidente, è che la situazione ucraina resti in relativo stallo fino alle elezioni americane, con i russi che continueranno la loro avanzata incrementale, ma evitando di fare sfracelli. Almeno questo è quello che pensa Zelensky, secondo il quale anche Putin sta aspettando novembre (vedi Nyt citato).
E forse è questo il tacito patto che la parte più lucida dell’America sta tentando di stabilire con Mosca: da parte loro, gli Usa eviteranno di salire ulteriormente i gradini dell’escalation, tenendo buoni anche i partner, in cambio Mosca frenerà la sua avanzata, evitando che rovesci drammatici sul fronte ucraino incidano sulle presidenziali, in particolare sul candidato democratico – Biden o un altro – il cui destino, dopo tanto nefasto sostegno verso Kiev, è per forza associato a quello del conflitto ucraino.
Da parte sua, Putin potrebbe accogliere la proposta, nella speranza che una vittoria di Trump chiuda la nefasta finestra bellica o che lo faccia un altro presidente democratico, essendo sempre più imperativo per l’America concentrare tutto il suo fuoco di sbarramento verso la Cina (non riescono a vivere senza nemici…).
Il negoziato a distanza e la diatriba imperiale
Ma l’orizzonte di tale possibile intesa – che, ripetiamo, vive della precarietà propria della geopolitica – potrebbe anche essere a più ampio raggio, come scrive Nikolas Gvosdev sul National Interest.
Secondo Gvosdev, se è vero che il Potere costituito d’Occidente continua a ripetere che non è possibile dialogare con Mosca – come denota anche il bombardamento della missione di pace del primo ministro ungherese Viktor Orbán – e mentre è evidente che non ci “sono sul tavolo colloqui diplomatici diretti, è un errore pensare che non si stiano svolgendo trattative”.
“Proprio come Robert McNamara descrisse la quarantena durante la crisi missilistica cubana come una forma di linguaggio attraverso cui il presidente John F. Kennedy comunicava con il leader sovietico Nikita S. Krusciov, possiamo vedere lo schema dei negoziati attualmente in corso tra Ucraina e Russia, tra l’Ucraina e i suoi partner occidentali e tra Stati Uniti e Russia”.
Lasciando da parte i dettagli di tali negoziazioni sottotraccia riguardanti i Paesi cerniera tra Asia ed Europa, più interessante quel che Gvosdev scrive sull’Ucraina: “La mia previsione è che quella che definisco ‘Ucraina centrale’ sarà integrata come membro a pieno titolo sia dell’Unione Europea che della NATO”, con calendario e condizioni da definirsi.
“I negoziati sussidiari dipenderanno, in parte, dall’equilibrio delle forze, dalla volontà politica e dal verificarsi di ulteriori crisi in Medio Oriente e nell’Asia-Pacifico. Il risultato potrebbe assumere la forma di una zona neutrale tra la Russia e il ‘nucleo dell’Ucraina’, una regione smilitarizzata, un’accettazione de facto delle linee del fronte come linee di controllo e una maggiore presenza della NATO in Polonia e Romania in grado di fornire un efficace ombrello di deterrenza sull’Ucraina senza che si proietti tale potere verso il cuore della Russia”.
Arduo che la Russia accolga l’idea di una “Ucraina centrale” nella Nato, cioè militarizzata, confinante con un Donbass smilitarizzato, ma al di là dettaglio, lo scenario ha una sua razionale suggestione, come anche la premessa sui negoziati “a distanza”.
Resta che l’incertezza e le lotte intestine nel cuore dell’Impero rendono intese, sottotraccia o meno, e prospettive conseguenti minate da una persistente precarietà. L’Impero è allo sbando e la senescenza di Biden aggiunge a tale precarietà quel tocco di umorismo che muta la tragedia in farsa e fa della farsa tragedia.
Così le immaginifiche gaffe inanellate al vertice Nato, che velano e svelano allo stesso tempo, con Zelensky che viene scambiato per Putin, ma soprattutto la defaillance su Kamala Harris, parlando della quale Biden ha detto: “Non avrei scelto il vicepresidente Trump come vicepresidente se avessi pensato che non fosse adatto alla presidenza”.
Trump, dal canto suo, rafforza la sua spinta, sia incassando una lauta donazione del patron di X (già twitter) Elon Musk – ancora più significativa se si ricorda che prima delle precedenti presidenziali Trump fu bannato da twitter – sia incassando l’endorsement più che simbolico di Larry Pinkney, esponente di spicco del Black Panther Party.
Ma, ricordando quanto sia importante il tempo nella geo-politica, da qui al 5 novembre può accadere di tutto. Tre mesi e mezzo sono un’era geologica.