Netanyahu contro l'esercito, il picco della guerra di Gaza
Le dimissioni di Benny Gantz, che avrebbero dovuto porre criticità al governo Netanyahu appaiono, ad oggi, un colpo a salve. Anzi, con lo scioglimento successivo del gabinetto di guerra, Netanyahu sembra aver preso saldamente in mano tutto il potere. Lo dimostra anche il successo sul fronte diplomatico, cioè il collasso dei negoziati con Hamas, che il premier israeliano ha sempre osteggiato per proseguire ad oltranza questa maledetta guerra, che ad oggi conta quasi 38mila vittime palestinesi.
Eppure, per un automatismo inevitabile, proprio tali successi hanno iniziato a creargli criticità. Avendo preso in mano tutto il potere di Israele e avendo allontanato tutte le figure che fungevano da camera di compensazione rispetto ai suoi critici, le forze oppositive si sono esacerbate.
Da qui l’ondata di proteste, le più massive dall’inizio della guerra, per chiedere le dimissioni del governo e un accordo con Hamas per liberare gli ostaggi. Da qui lo scontro, ormai aperto, con i più importanti generali israeliani, inusuale soprattutto con una guerra in corso. Su quest’ultimo punto, riferisce Anshel Pfeffer su Haaretz, dipanandone i fili.
L’annuncio di due giorni fa, con cui l’Israel defence force si impegnava a una pausa umanitaria degli scontri per permettere agli aiuti di arrivare a Gaza ha suscitato le ire del premier (per inciso, si tratta più di un’operazione di restyling dell’IDF che di altro, dal momento che non è bastevole a sovvenire ai tragici bisogni della popolazione di Gaza, ma tant’è).
La reprimenda di Netanyahu non è andata giù ai generali, che hanno fatto trapelare ai media che la decisione era stata concordata con lui. Da cui la successiva sfuriata del premier che, nell’ultima riunione del gabinetto di guerra, ha affermato: “Siamo uno stato che ha un esercito, non un esercito che ha uno stato”.
La lunga guerra tra Netanyahu e l’IDF
In realtà, la tensione tra Bibi e i più alti gradi dell’esercito dura da tempo e si fonda su un querelle dirimente. Così la sintetizza Pfeffer: “Alti ufficiali hanno informato i media che Israele rischia di perdere i ‘guadagni tattici’ ottenuti negli ultimi mesi di combattimenti a Gaza, perché Netanyahu si è rifiutato di consentire la formazione di ‘un’alternativa ad Hamas’ che possa prendere il controllo della Striscia. Invece, Hamas sta tornando nelle aree già bonificate dall’IDF”.
Il focus della questione sta dunque sulla condotta della guerra e sulla consapevolezza, da parte dei generali, che una guerra infinita rischia di far precipitare Israele in una palude logorante. Quest’ultima criticità è accennata da Amos Harel in un articolo di Haaretz dal titolo significativo: “Le truppe israeliane esauste hanno bisogno di una tregua, ma Netanyahu sta costringendo l’IDF a continuare a combattere”.
In ballo non ci sono solo le prospettive della guerra e il logoramento delle forze, c’è anche la sorte dei 120 ostaggi ancora in mano ad Hamas, la cui liberazione è stata posta come obiettivo prioritario da Tel Aviv all’inizio dell’invasione.
A tale proposito, Pfeffer ricorda che, dopo la liberazione dei 4 ostaggi avvenuta nel tragico blitz dell’8 giugno, “Daniel Hagari […] aveva dichiarato ai giornalisti che, per quanto l’operazione avesse avuto successo, era necessario comunque trovare un accordo con Hamas per riavere in vita la maggior parte dei restanti 120 ostaggi”.
Hagari, annota Pfeffer è uno stretto collaboratore di Herzi Halevi, Capo di stato maggiore dell’esercito, il quale a sua volta, “nel corso di incontri privati ha parlato della necessità di dare priorità ad un accordo con Hamas per il rilascio degli ostaggi ancora detenuti a Gaza”.
Una vera e propria spaccatura tra esercito e premier, con il ministro della Difesa Yoav Gallant che si è fatto portavoce delle istanze dei militari, ed ora, dopo le dimissioni di Gantz, è “l’unico critico aperto [di Netanyahu] all’interno del governo”.
Su questo scontro, che ha un peso notevole sullo sviluppo della guerra, sono di interesse due cenni ulteriori di Pfeffer. Il primo è che, nonostante la popolarità di Netanyahu, il “marchio IDF è più forte e duraturo del marchio BB”, (Benjamin, Bibi, Netanyahu).
Il secondo è quanto scrive a fine articolo: “Nonostante il posto centrale che occupa l’IDF nella vita pubblica israeliana, non si è mai avvicinato nemmeno lontanamente a fare un colpo di stato militare. Ma i disaccordi sempre più espliciti tra Netanyahu e l’IDF sulla condotta della guerra, sulle sue origini e su come finirà, sono destinati a diventare più tossici e drammatici nelle sue implicazioni”. Ciò è ancor più vero perché mai come questa volta il conflitto che si sta giocando dentro e fuori Israele è di natura tanto esistenziale.
Il picco del conflitto e i negoziati Usa-Iran incidentati
Un approfondimento merita l’aspetto militare. Se Pfeffer riferisce del logoramento dell’esercito e delle discordie sulla continuazione della guerra, un articolo di The Cradle annota come Gantz si sia ritirato dal governo dopo quello che, nella dottrina della guerra di Carl von Clausewitz, viene definito il “picco”.
In tutte le guerre, annotava Clausewitz, c’è un picco, una “linea oltre la quale il progresso militare, avendo ottenuto tutto ciò che si poteva, diventa politicamente distruttivo. Oltre questo punto, qualsiasi ulteriore azione offensiva mette a repentaglio i successi precedenti”.
Tale picco, sarebbe stato raggiunto con l’operazione di Rafah, come, secondo The Cradle, trapelava anche dalle parole del Segretario di Stato americano Tony Blinken in un’intervista di metà maggio: “Anche se [l’IDF] entrasse e intraprendesse un’azione pesante a Rafah, rimarrebbero comunque migliaia di uomini di Hamas armati”, sottolineando che “l’abbiamo visto, in aree che Israele ha sgomberato a Nord, anche a Khan Younis, in cui Hamas è tornato”.
Netanyahu ha dalla sua la massima che recita come sia facile iniziare le guerre quanto difficile porvi fine. Ma le contraddizioni che stanno esplodendo in Israele e l’inattesa resistenza di Hamas possono mandare all’aria i suoi sogni di gloria.
Una nota a margine merita un articolo di Middle East Eye, secondo il quale i colloqui tenuti in via riservata in Oman tra Iran e Stati Uniti per porre fine alla guerra di Gaza e al governo Netanyahu “stavano facendo progressi, ma sono stati messi a repentaglio dalla morte improvvisa del presidente iraniano Ebrahim Raisi e del suo ministro degli Esteri” Amir-Abdollahian, ambedue periti in un improvvido incidente aereo. Tante le sfaccettature dell’Impero, tanti gli incidenti di percorso.
Intanto, Timesofisrael ieri ha rivelato un rapporto della Divisione Gaza dell’IDF del 19 settembre 2023 che allarmava su un prossimo attacco terroristico contro Israele, nel quale sarebbero state rapiti 250 israeliani.
L’ennesimo avvertimento ignorato e che appartiene, come gli altri, al tragico mistero di quanto realmente accaduto il 7 ottobre. L’interesse della rivelazione risiede però altrove: le rivelazioni precedenti sul punto sono sempre cadute in momenti critici.
Quest’ultima, come le pregresse, appartengono cioè alla lotta segreta che si sta consumando in Israele, in combinato disposto con la l’analoga che, oltreoceano, vede scontrarsi i fautori di Netanyahu e della sua guerra infinita e i suoi nemici americani.