Netanyahu vs Hezbollah, verso un'altra guerra
“Gli Stati Uniti hanno avvertito Hezbollah che non potranno trattenere Israele se l’escalation continua”. Questo il titolo di un articolo di Axios che allarma, come altri, sull’imminenza di un nuovo conflitto mediorientale, ancora più distruttivo e rischioso di quello di Gaza per la stabilità globale, dal momento che gli Stati Uniti non potranno esimersi dall’intervenire, come hanno riferito a Hezbollah.
Ma per Netanyahu conta solo la “guerra” a Gaza
Israele, dunque, sta trascinando Washington in un’altra grande guerra, la cui causa non è la minaccia posta da Hezbollah allo stato confinante, come da narrazione corrente, ma dal rifiuto di Tel Aviv di porre fine alla mattanza di Gaza, che spegnerebbe immediatamente l’incendio al confine libanese, com’è accaduto durante l’unica tregua del conflitto.
Detto questo, a Tel Aviv, nonostante le dichiarazioni roboanti, sanno perfettamente che una guerra con Hezbollah sarebbe devastante, non solo per l’arsenale e le capacità militari della milizia, ma anche perché si attiverebbero in maniera molto più massiva le milizie sciite irachene e le forze Houti, oggi impegnate in una guerra a bassa intensità per forzare Israele a chiudere le ostilità a Gaza.
I missili pioverebbero su buona parte di Israele, né l’appoggio americano potrebbe evitarlo. Anzi, la discesa in campo dichiarata degli States metterebbe tutte le sue basi mediorientali al centro del mirino dei suoi antagonisti, a iniziare da quelle ubicate in Iraq.
E ciò non considerando l’ingaggio dell’Iran, la cui discesa in campo renderebbe Israele un cumulo di macerie. Peraltro, tale opzione non è affatto improbabile a motivo dell’isteria collettiva che causerebbe l’attacco incrociato contro Israele da parte del cosiddetto asse della resistenza e le manovre più o meno occulte degli eterni fautori di un attacco a Teheran.
E però, la guerra non è ancora destino manifesto, almeno a giudicare da quanto annota Axios, che riferisce come l’inviato Usa per il Medio oriente, Amos Hochstein, pur avendo avvertito il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah – tramite il presidente del parlamento libanese Nabih Berri – che la situazione è seria e gli Usa non possono garantire di poter frenare Israele, ha lasciato la porta aperta alla diplomazia.
Hezbollah “non vuole la guerra”
Subito dopo la visita, continua Axios, “Hezbollah ha inviato messaggi agli Stati Uniti attraverso terzi notificando che, sebbene non voglia la guerra, il gruppo è fiducioso di poter colpire Israele in modo significativo se invadesse il Libano”, dove l’accento cade, in realtà, sulla refrattarietà ad allargare il fronte.
Inoltre, “due giorni dopo il viaggio di Hochstein nella regione, i più importanti consiglieri di Netanyahu, il ministro Ron Dermer e il consigliere per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi, sono volati a Washington per un incontro alla Casa Bianca e hanno detto ai più stretti collaboratori di Biden che il primo ministro israeliano non è interessato a una guerra con Hezbollah e vorrebbe una soluzione diplomatica”.
Infine, riferisce Axios, “un funzionario americano ha detto che i consiglieri di Biden hanno detto a Dermer e Hanegbi che stanno lavorando a una soluzione diplomatica” della crisi. Si spera che la diplomazia della Casa Bianca attivata per la crisi libanese abbia maggior fortuna di quella messa in campo per Gaza…
Su quest’ultimo fronte non si segnalano novità di rilievo, a parte le stragi quotidiane e la conta dei morti che sale, con Save to Children che stima come “almeno 21 mila tra bambine e bambini siano dispersi, scomparsi, detenuti, sepolti sotto le macerie o sepolti nelle fosse comuni”. Numeri raccapriccianti, che rimandano ai troppi nomi e volti di bambini e bambine che non sono più.
Di Hamas, haredi e sottomarini.
L’unico cenno di qualche interesse rispetto agli eventi bellici, è la frase del Consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano Tzachi Hanegbi, secondo il quale è “impossibile” eliminare l’idea di Hamas.
A quanto pare, al ritorno dagli Usa, anche Hanegbi si è unito alla sorda opposizione a Netanyahu – che resta irremovibile nella sua prospettiva di liquidare Hamas – rinfoltendo così la schiera di quella parte di leadership israeliana che sta tentando in qualche modo di porre fine alla sanguinaria tragedia di Gaza (non perché siano più buoni, almeno la gran parte di essi, solo hanno coscienza che la mattanza non è sostenibile e sta logorando in vario modo il Paese).
Novità invece, e importanti, potrebbe portare la sentenza della Corte Suprema di Israele sull’obbligo per gli Haredi di svolgere il servizio militare come gli altri cittadini.
Un pronunciamento che potrebbe porre fine a un privilegio che gli ultraortodossi hanno difeso con le unghie e con i denti nonostante le forti pressioni avverse. Se non gestita bene, la sentenza potrebbe causare una crisi di governo, con le conseguenze del caso.
A scuotere il governo Netanyahu anche il riemergere della cosiddetta controversia dei “sottomarini“, in realtà alcuni navigli di varia natura acquistati in passato da uno dei governi Netanyahu in maniera che la Commissione d’inchiesta istituita ad hoc ha ritenuto non particolarmente cristallina (eufemismo d’obbligo).
Niente più che un grattacapo per il re di Israele, che però non può non vedere con certo allarme il moltiplicarsi di simili seccature, sintomo di una fronda interna invisibile, ma perniciosa.