Nucleare Iran: il nuovo realismo Usa
Tempo di lettura: 4 minutiMentre tutti gli occhi del mondo sono rivolti all’Ucraina, a Vienna si sta forse per concludere un’altra partita cruciale per la pace nel mondo. I negoziati sul nucleare iraniano, infatti, sono sulla “buona strada”, come ha detto Mahmoud Abbaszadeh Meshkini, portavoce della Commissione per la sicurezza nazionale e la politica estera del Parlamento iraniano (Tansim agency).
Gli inviati di Israele
Anche la mossa di Israele di inviare una delegazione a Vienna per seguire da presso le trattative, indica che si sta procedendo verso la chiusura di un accordo, dal momento che, da quando la nuova amministrazione Usa ha ripreso il dialogo con l’Iran, Tel Aviv, nonostante fosse più che interessata, aveva seguito gli sviluppi da lontano (e il fatto che abbiano inviato delegati propri indica anche che sulla vicenda non c’è sintonia con l’amministrazione Usa).
Una decisione irrituale, quella di Tel Aviv, perché essa è parte dell’accordo, stipulato al tempo di Obama e stracciato da Trump, e come tale stigmatizzata dagli iraniani, i quali temono che il governo israeliano, contrario al ripristino sic et simpliciter dell’intesa, possa immettere nuove variabili nel già complicato rebus, rendendolo di impossibile soluzione (Timesofisrael).
Perché, peraltro, a rendere vani i colloqui di Vienna finora è stata proprio l’inserzione di nuovi elementi nell’intesa precedente.
Vecchi accordi e nuove difficoltà
Quando Trump stracciò l’accordo, su pressione dei neocon, i democratici si stracciarono le vesti criticando la mossa, perché foriera di nuove tensioni in Medio oriente. E promisero di ripristinarlo non appena saliti al potere.
Ma, una volta vinte le elezioni, invece di tornare all’intesa originale, cosa molto facile, con conseguente abolizione delle tante sanzioni che stanno strangolando l’economia iraniana, hanno preteso di aggiornarla inserendo nuovi elementi che hanno reso arduo, se non impossibile, il placet iraniano.
Anzitutto hanno chiesto un ridimensionamento e un monitoraggio del programma missilistico di Teheran, pretesa inaccettabile perché si chiedeva di fatto all’Iran si mettere il proprio sistema difensivo sotto tutela, cosa che l’avrebbe lasciata alla mercé dei suoi antagonisti (si ricordi come Gheddafi rinunciò al nucleare accordandosi con gli Usa, che approfittarono del disarmo per eliminarlo).
Inoltre, era stato chiesto a Teheran di ridimensionare la propria influenza regionale, con la scusa di porre un freno alle attività terroristiche delle milizie filo-sciite in Iraq e Libano.
Un’altra richiesta inaccettabile, sia perché tali milizie sono formate per lo più da elementi locali, di cui l’Iran non può disporre a piacimento, sia perché quelli che l’Occidente bolla come gruppi terroristi per Teheran sono forze di resistenza al nemico israeliano e americano (l’antagonismo attuale potrà mutare, ma non certo a breve).
Il nodo delle sanzioni
Richieste nuove, come scritto prima, che nulla avevano a che fare con l’accordo precedente, al quale si aggiungeva un’altra difficoltà.
L’Iran chiedeva garanzie, sia sull’inviolabilità dell’intesa, sia sull’abolizione delle sanzioni, per evitare che si ripetesse quanto già avvenuto in passato, cioè che l’accordo raggiunto a Vienna fosse nuovamente stracciato dalla controparte. Garanzie che Washington finora si è rifiutata di dare (sul punto vedi l’articolo di Responsible Statecraft).
Finora gli Stati Uniti avevano tenuto ferme le proprie posizioni, contando sul fatto che le sanzioni imposte all’economia iraniana costringessero la controparte a cedere.
Una determinazione che ricalcava la politica della “massima pressione” che i media, al tempo, indicavano come una caratteristica della politica estera di Trump, ma che, come si può notare da tale esempio, fa invece parte della cassetta degli attrezzi dei falchi Usa.
A quanto pare gli Stati Uniti sono giunti a più miti consigli, anche perché nel frattempo gli iraniani, liberati dai vincoli posti dall’accordo, hanno ripreso ad arricchire l’uranio, minacciando di arrivare alla soglia critica necessaria per la fabbricazione della bomba atomica.
Il nuovo realismo americano
Né Washington né la Difesa israeliana possono permettersi che l’Iran immetta tale tassello nel già complicato rebus mediorientale, da qui la nuova disponibilità americana. Resta il nodo delle sanzioni: l’Iran è pronta a firmare, ma vuole garanzie reali sulla loro revoca.
Sulla questione, riportiamo quanto scrive Zvi Bar’el su Haaretz: “Queste due questioni, la garanzia e il controllo sulla revoca delle sanzioni, rappresentano gli ultimi ostacoli […] prima che possa essere firmato un accordo. [Gli iraniani] Dicono che le questioni tecniche sull’arricchimento dell’uranio, lo sviluppo del programma nucleare e la supervisione degli impianti di arricchimento non sono più oggetto di controversia perché su tali aspetti c’è già un accordo”.
“Alla luce di tutto ciò, sembra che questioni che non erano nell’accordo originale, come il programma missilistico iraniano, il sostegno alle organizzazioni terroristiche e il coinvolgimento iraniano nei conflitti regionali, non siano affatto sul tavolo”.
“In questo senso, possiamo fare affidamento sulle dichiarazioni dei leader iraniani rilasciate nelle ultime settimane secondo le quali gli Stati Uniti si rendono conto di dover adottare un approccio più realista. E il silenzio degli americani rafforza l’idea che Biden riconosca i suoi limiti nei colloqui in corso”.
Per questo, conclude Bar’el, ormai non è più a tema se un’intesa possa essere raggiunta, ma solo “quando” arriverà la firma, anche se il quando potrebbe conoscere ulteriori dilazioni.
La posta in gioco è altissima, forse più della crisi ucraina, almeno sotto il profilo del numero delle vittime di un conflitto che un mancato accordo con Teheran renderebbe di fatto inevitabile. Vedremo.
Ps. A legare le tensioni in Ucraina e le trattative di Vienna non è solo la tempistica. A parte interazioni più occulte una è evidente. I falchi repubblicani e democratici sono pronti a presentare l’eventuale intesa con Teheran come un cedimento di Biden. Se riuscissero a creare una narrativa su una soluzione della crisi ucraina modulandola come un’ulteriore resa dell’amministrazione americana, stavolta a Putin, la presidenza Biden, già criticata per il ritiro dall’Afghanistan, ne risulterebbe incenerita. Da qui la posa muscolare di Biden sull’Ucraina, che non aiuta a sciogliere nodi.