L'ex premier pakistano Khan in carcere. Il ruolo degli Usa
Tempo di lettura: 4 minutiL’ex primo ministro pakistano Imran Khan “la scorsa settimana è stato condannato a tre anni di carcere – e cinque anni di esclusione dalla politica – per una presunta appropriazione indebita di alcuni doni ufficiali. Ciò segue la sua rimozione da primo ministro in un colpo di stato guidato dalla CIA e a una feroce campagna di abusi e arresti contro Khan e i suoi sostenitori” [il Movimento per la Giustizia del Pakistan].
“Adesso in Pakistan non è lecito pubblicare o trasmettere informazioni su Khan o sulle migliaia di nuovi prigionieri politici, incarcerati in condizioni spaventose. Non si sono elevate proteste da parte dei governi del Regno Unito o degli Stati Uniti”. Così inizia un articolo di Craig Murray su Consortium News, il quale annota anche che la Gran Bretagna ospita una forte minoranza pakistana, da cui peraltro proviene l’attuale sindaco di Londra, Sadiq Khan.
Il “golpe” in Pakistan e la defenestrazione di Khan
In realtà, il golpe di cui scrive Murray è stato istituzionale: il premier pakistano è stato rimosso con un voto di sfiducia del parlamento nell’aprile del 2022. Una “pratica” democratica, dunque, che però è stata l’esito di una forte pressione di Washington.
Tutto nasce dopo la manifestazione del 6 marzo del 2022, indetta da Khan per spiegare la posizione che aveva preso sulla guerra ucraina. Con lui al governo, infatti, il Pakistan era stata una delle tante nazioni non occidentali a non aderire alle sanzioni anti-russe, suscitando le ire di Washington e della Ue che l’avevano richiamato all’ordine.
In quel 6 marzo, nel suo accorato discorso alla folla, Khan ha risposto pubblicamente agli appelli indirizzati al Pakistan perché prendesse posizione contro Mosca, affermando a voce alta: “Siamo forse vostri schiavi? Cosa pensate di noi? Che siamo vostri schiavi e faremo tutto quello che ci chiederete? Siamo amici della Russia e siamo amici anche degli Stati Uniti. Siamo amici della Cina e dell’Europa. Non facciamo parte di nessuna alleanza”.
La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il giorno dopo, infatti, Donald Lu, responsabile dell’Asia meridionale e centrale per il Dipartimento di Stato, e un altro funzionario americano si recano da Asad Majeed Khan, ambasciatore del Pakistan negli Stati Uniti.
Il contenuto della conversazione resterà riservato, ma “un mese dopo l’incontro […] e pochi giorni prima che Khan venisse rimosso dall’incarico, l’allora capo dell’esercito pakistano Qamar Bajwa ruppe pubblicamente con la neutralità di Khan con un discorso in cui definiva l’invasione russa una ‘grande tragedia’ e criticava la Russia“, dettaglia The Intercept, che spiega come tale presa di posizione era volta a far capire che “la neutralità del Pakistan era una determinazione di Khan, non dei militari”. E mettersi contro i militari non è un bene in Pakistan, dal momento che, come accade altrove, sono il vero potere forte del Paese.
Rimosso dalla suo incarico, Khan continua imperterrito la sua battaglia politica radunando folle oceaniche di sostenitori in ogni angolo del Paese. Tanto che la sua vittoria alle elezioni che dovrebbero svolgersi nel prossimo autunno era data quasi per scontata (ora il voto rischia di slittare di un anno, come annota la BBC).
Ma la popolarità di Khan non riesce a difenderlo dalle tante insidie che gli vengono tese: inizia a essere inseguito dalle inchieste giudiziarie come un Trump qualsiasi (1), lui e i suoi collaboratori sono minacciati ed è anche fatto segno di un attentato, dal quale si salva miracolosamente (ma viene ucciso un suo sostenitore).
Il cablogramma
Nel corso della sua battaglia politica accusa pubblicamente l’establishment degli Stati Uniti di aver manovrato per la sua rimozione. E dice di avere prove in tal senso. Addirittura, in un’occasione, sventola davanti alla folla un cablogramma che proverebbe la sua denuncia.
Accuse che gli Stati Uniti hanno rigettato con sdegno, derubricandole a mera disinformazione, dal momento che non appartiene alla loro politica l’ingerenza nelle vicende politiche di un Paese alleato.
Ma un cablogramma inchioda Washington alle sue responsabilità. Ed è il rapporto che l’ambasciatore pakistano stila e invia nel suo Paese subito dopo l’incontro con Donald Lu, pubblicato integralmente da The Intercept il 9 agosto.
Rimandiamo chi volesse leggere il cablogramma all’articolo di The Intercept. Nella nostra nota ci limitiamo a riportare la sintesi che ne fa il sito americano: “Secondo il cablogramma, sebbene Lu non abbia chiesto esplicitamente la rimozione di Khan dall’incarico, ha detto che il Pakistan sarebbe andato incontro a gravi conseguenze, compreso l’isolamento internazionale, se Khan fosse rimasto primo ministro, accennando, allo stesso tempo, a una ricompensa se fosse stato rimosso”.
“Le parole di Lu – osserva The Intercept – possono essere interpretate come un segnale indirizzato all’esercito pakistano perché entrasse in azione”. Difficile interpretarle diversamente. E la cronaca politica, e giudiziaria, seguente avvalora in maniera palese tale interpretazione.
Peraltro, l’esercito pakistano ha un legame alquanto stretto con gli Stati Uniti, anche per via dei lauti finanziamenti che riceve da Washington che ne hanno accresciuto il potere. E stretti sono i rapporti del generale Qamar Bajwa succitato con la politica Usa, come denota la sua visita negli Stati Uniti del giugno 2022, durante la quale ha incontrato il ministro della Difesa Lloyd Austin e il Consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan (al Jazeera), onore raro per un generale.
L’ingerenza c’è stata, eccome. E non ha solo messo fine a un’avventura politica, ma ha anche avviato un giro di vite contro i sostenitori di Khan e i critici del governo, ha silenziato la stampa e altro. In un altro Paese tale modalità di governo sarebbe definita autoritaria secondo lo schema “libertà contro autoritarismo” caro a Washington. Una brutta pagina di cronaca geopolitica.
(1) Il parallelismo con Trump non è casuale. Khan è stato arrestato una settimana dopo aver rilasciato un’intervista esclusiva a un sito americano schierato apertamente con l’ex presidente degli Stati Uniti…