Il piano di Biden per una tregua a Gaza stavolta è serio
La proposta di un cessate al fuoco lanciata da Biden è seria, ha un supporto altrettanto serio e, se è vero che non è automaticamente destinata a realizzarsi, è pur vero che si tratta di una prova di forza reale per imporre a Netanyahu di riporre le armi nella fondina.
Il fatto che sia seria lo segnala che stavolta Biden l’ha annunciata personalmente nel dettaglio, non affidandosi solo a emissari inviati in loco e a indiscrezioni. Emissari che pure hanno lavorato per delineare il quadro dell’intesa insieme a Israele, Egitto e Qatar.
La proposta è stata definita come un piano “israeliano” per rendere più arduo al governo di Tel Aviv di rigettarla. E come tale è stata accolta e rilanciata dall’Aipac, la più importante lobby ebraica d’America. Un endorsement invero molto pesante. Abbiamo scritto definita israeliana perché non è stata concordata con il premier israeliano che infatti l’ha prontamente rigettata.
Il J’accuse di Eisenkot
Ma è certo che è stata concordata con altri esponenti del governo e del gabinetto di guerra israeliano. Significativo, in tal senso, l’intervento di tre giorni fa di Gadi Eisenkot, ex capo di stato maggiore dell’IDF e leader di Unità nazionale – partito che partecipa al governo – che ha dato voce all’opposizione interna ed esterna a Netanyahu.
Eisenkot ha lanciato un durissimo j’accuse contro il premier, affermando, tra l’altro, che “chiunque dica che smantelleremo i battaglioni [di Hamas] a Rafah e riporteremo indietro gli ostaggi semina false illusioni” (di interesse anche il particolare riferito solo dal leader di Hezbollah Sayed Hassan Nasrallah, cioè che Eisenkot ha rivelato che un’intera divisione dell’esercito israeliano sta ora combattendo contro una brigata di Hamas che l’IDF aveva annunciato di aver smantellato in precedenza…).
Eisenkot ha concluso il suo intervento affermando che è tempo di andare a elezioni e sostituire Netanyahu, in ciò anticipando l’esito dell’ultimatum lanciato dall’altro leader del suo partito, Benny Gantz, che ha dato tempo fino all’8 giugno a Netanyahu per presentare un piano per il dopoguerra, altrimenti avrebbe abbandonato il governo.
Insomma, è più che probabile che il piano “israeliano” proposto da Biden sia stato concordato proprio con tali esponenti politici e altri a cui Eisenkot e Gantz stanno dando voce (primo fra tutti il ministro della Difesa Yoav Gallant, che condivide le loro prospettive sull’intervento di Gaza), ma anche con parte dell’establishment della Difesa e dell’intelligence.
L’altro aspetto che rende seria la proposta è che per la prima volta l’America parla apertamente di un cessate il fuoco duraturo, essendosi limitata in precedenza, almeno nelle pubbliche dichiarazioni, ad affermare la necessità di una tregua limitata, prospettiva inaccettabile da Hamas. Tanto è vero che Hamas ha reagito positivamente all’attuale offerta, aprendo alla possibilità di un accordo.
Quanto avvenuto va messo in correlazione con gli avvenimenti pregressi, lo scoop del Guardian sulle pressioni indebite di Netanyahu contro il Tribunale penale internazionale è solo la punta dell’iceberg delle pressioni esercitate negli ultimi giorni su Netanyahu perché ceda (vedi Piccolenote). Ma il premier tiene duro. E tutto resta in sospeso, anzi la possibilità che l’ipotesi di una tregua naufraghi è alta.
Netanyahu invitato al Congresso Usa
A quanto esposto va aggiunto che, in concomitanza con la proposta di Biden, Netanyahu è stato invitato a parlare al Congresso degli Stati Uniti. L’iniziativa era partita dal presidente della Camera, il repubblicano Mike Johnson, ma è stata sottoscritta dai più importanti leader del partito democratico, tra cui il potente leader dei democratici al Senato Chuck Schumer, diventando bipartisan.
Un’iniziativa volta a difendere il leader israeliano e Israele stessa dalla giustizia internazionale, essendo pendenti all’Aia una causa per genocidio e un mandato di arresto contro Netanyahu.
Ma per i repubblicani che hanno spinto Johnson a fare questa mossa è anche un modo per riportare in auge i neocon nel loro partito, la cui influenza è stata erosa dalla marea trumpiana.
Non sfugge che l’invito è arrivato subito dopo la condanna di Trump da parte del tribunale di New York e che nei giorni precedenti Nikki Halley e Lindsey Graham, figure simboliche del movimento neoconservatore, si siano precipitati in Israele per incontrare Netanyahu, un punto di ferimento dei neocon.
Una partita di giro complessa, che vede intrecciarsi la lotta intestina per il futuro di Israele con la corsa alla Casa Bianca, il tentativo di eliminare la variabile Trump dai giochi imperiali, la spinta a evitare alla giustizia dell’Aia di fare il suo corso (che avrebbe conseguenze di immagine anche per l’America) e la lotta per gli interessi imperiali in Medio oriente, che la guerra di Gaza può mettere a rischio alienandogli i Paesi arabi.
In questa partita di giro i palestinesi sono solo vittime sacrificali, con una mattanza che può avere un freno, al momento, solo dall’interesse del partito democratico a chiudere la partita. Partita che, però, resta drammaticamente aperta.