19 Giugno 2021

Presidenziali Iran: vince la destra, ma l'accordo con gli Usa si fa

Presidenziali Iran: vince la destra, ma l'accordo con gli Usa si fa
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Ebrahim Raisi sarà il prossimo presidente iraniano. Tale l’esito scontato delle votazioni che si sono svolte in questi giorni, dato che Raisi era appoggiato tacitamente dall’ayatollah Ali Khamenei e che i suoi sfidanti avevano poca benzina nel motore.

Raisi è espressione della destra religiosa: un chierico non poco importante, ma così vicino dall’ajatollallah che sembra voglia farne il suo successore, chiudendo così anche la corsa alla più importante carica del sistema iraniano, caratterizzato da un intreccio inestricabile, ma di certo equilibrio (grazie alle tante camere di compensazione) tra politica e religione.

il futuro Iran, dunque, sarà appannaggio della destra: un grande successo dei falchi anti-iraniani, che portando al parossismo lo scontro con l’Iran, con la rescissione dell’accordo sul nucleare e al duro regime sanzionatorio, hanno fiaccato le forze moderate, che sognavano un (per ora) impossibile appeasement con l’Occidente.

Iran: la deriva dopo l’assassinio di Soleimani

Da qui la scontata deriva a destra del Paese, motivo aggiuntivo dell’assassinio del generale Qassem Soleimani del gennaio dello scorso anno: con quell’omicidio non si voleva solo eliminare il geniale capo delle Guardie rivoluzionarie, la cui intelligenza era riconosciuta anche dai suoi più acerrimi nemici, ma anche impedire la sua ascesa al più alto scranno del Paese, che l’avrebbe reso uno degli uomini più influenti del mondo e avrebbe fatto dell’Iran una potenza regionale a proiezione globale.

Questo il passato, il presente potrebbe vedere assurgere a quel ruolo Raisi, dopo il passaggio da presidente, il quale in queste elezioni si è giovato appunto dell’appoggio delle Guardie rivoluzionarie, che nel Paese sono forza militare ed economica. I suoi contendenti, come da copione, ne hanno riconosciuto la vittoria prima ancora della fine dello spoglio.

Una vittoria che però è anche un compromesso, come spesso accade in Iran, dove destra e sinistra trovano più spesso che altrove convergenze dettate dalla necessità di far fronte comune alle immani pressioni esterne.

Così Raisi, nonostante la sua rigidità nei confronti dell’Occidente, rispetto al quale non ha alcuna fiducia, si è detto favorevole a un ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), che Usa e Iran stanno negoziando a Vienna.

Come registra una nota dell’Atlantic Council, “durante la campagna presidenziale del 2017, [Raisi] ha sottolineato che qualsiasi amministrazione prenda il potere dovrebbe essere impegnata nel JCPOA. ‘L’accordo sul nucleare, nonostante le sue carenze, è un istituto nazionale'”, ha affermato.

Così, ora, dopo le elezioni, si possono concludere le trattative. Era chiaro, infatti, che esse non si sarebbero chiuse prima delle elezioni iraniane, per evitare che influissero sull’esito del voto. E da parte loro, è più che probabile che i riformisti abbiano tacitamente accettato la vittoria del rivale in cambio della promessa di procedere velocemente sulla via dell’accordo.

Così non meraviglia che proprio nel giorno in cui l’Iran accoglie il suo nuovo presidente, il Pentagono confermi l’anticipazione del  Wall Street Journal, che annunciava il ritiro di diversi sistemi d’arma dal Medio oriente, in particolare i i sistemi anti-missile Patriot dislocati in Iraq, Kuwait, Giordania e Arabia Saudita in funzione anti-iraniana (Timesofisrael).

Di Raisi si dice sia intransigente e gli articoli dei giornali occidentali ricordano che egli è stato oggetto di sanzioni per i suoi trascorsi da giudice (lavoro che gli ha attirato le simpatie dell’ajatollah, che l’ha messo a capo della magistratura). Nel corso del suo lavoro, infatti, avrebbe comminato diverse pene capitali a cittadini che avevano preso parte alle proteste anti-governative degli anni passati.

Decisioni inaccettabili, al tempo e oggi, ma è criticità comune in Medio oriente, basti pensare ai quaranta adolescenti che attualmente rischiano la pena capitale in Arabia Saudita per aver partecipato ad analoghe proteste rivolte contro i Saud, tra cui il quattordicenne Abdullah al-Huwaiti, il cui processo, peraltro, secondo Human Rights Watch, “ha violato quasi ogni garanzia prevista a livello internazionale per un procedimento equo” (sulla sorte dei ragazzi c’è una certa pressione internazionale, vedremo).

Al di là delle complicazioni mediorientali, resta appunto la strada spianata verso l’accordo Usa – Iran per contenere l’atomica di Teheran. L’unico Paese recalcitrante resta Israele, ma, come ha spiegato un alto funzionario della Sicurezza di Tel Aviv ad Haaretz, lo stesso Netanyahu, pure più duro dell’attuale premier sul tema, aveva “capito che l’accordo è un fatto compiuto e contava di ricevere un generoso pacchetto di compensazioni dagli Stati Uniti”.

E se il suo successore alla guida del Paese, Naftali Bennet ha bollato il ripristino dell’accordo come un “errore“, non porrà ostacoli seri sul cammino. Si apre una nuova stagione per l’Iran e il Medio oriente. Non certo di pace, ovvio, ma forse migliore della precedente, caratterizzata da una destabilizzazione permanente.