12 Gennaio 2024

Presidenziali USA: Trump vs Haley-Clinton

Haley, la "rubacuori" neocon, incontra i primi ostacoli. Ma Trump è alle prese con i suoi guai giudiziari... I disastri della "nazione indispensabile"
Why Haley Won’t Break Through. Presidenziali Usa: Trump vs Haley-Clinton
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Di due giorni fa il dibattito Tv tra gli sfidanti di Trump per poter competere con quest’ultimo per la candidatura dei repubblicani alle presidenziali, dal momento che ad oggi il superfavorito per la sfida con il candidato dei democratici resta il Tycoon.

A sfidarsi in Tv, l’ex governatore del New Jersey Chris Christie, il governatore della Florida Ron DeSantis e l’ex governatrice della Carolina del Sud Nikki Haley, stellina in ascesa.

Trump, al solito, ha snobbato il dibattito, non prendendo neanche in considerazione i suoi rivali. Può permetterselo, dal momento che ha un vantaggio stratosferico sui suoi contendenti, che potrà ridursi solo quando ne rimarrà solo uno, al quale gli altri daranno il loro appoggio a motivo della causa comune (e che li accomuna ai rivali dem): impedire al Tycoon di arrivare alla Casa Bianca.

Nel dibattito, animato dagli usuali battibecchi, a far notizia è stato Christie, che ha annunciato il suo ritiro dalle presidenziali, aggiungendo che avrebbe lavorato duro per impedire a Trump di diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti.

Haley, la “rubacuori” neocon

Ma la vera bomba Christie l’ha lanciata a microfono spento, o che tale presumeva essere, affermando che la Haley “going to get smoked“, cioè sarà incenerita. Battuta che ha fatto il giro del mondo e che è calata come una mannaia sul collo della stellina neoconservatrice.

Tanto che, nonostante l’appoggio del noto movimento guerrafondaio, è iniziato il tiro al bersaglio. Così, ad esempio, il titolo di un articolo di Politico: “Perché la Haley non riuscirà a sfondare”,  nel quale si spiega che sa parlare solo a quanti hanno un livello culturale medio-alto, non alla gente comune.

Insomma la “rubacuori” neocon, come ebbe a definirla Joe Leb  (attributo che ci ha fatto sorridere per il casuale richiamo a Karima el Mahroug, in arte Ruby, di cui tanto ha dibattuto la cronaca nostrana) non ha spessore per vincere.

La battuta di Christie potrebbe essere la pietra che, caduta dalla cima del monte, scatena la valanga che la travolgerà, anche perché ha avuto l’infelice idea di affermare che è stata ispirata a candidarsi da Hillary Clinton, che resta sua musa ispiratrice.

Affermazione ovvia, data la contiguità tra i due personaggi, che evidenzia come sui temi essenziali i due maggiori partiti sono sovrapponibili; ma anche infelice, ché la Clinton non è simpatica, per usare un eufemismo, al popolo repubblicano.

Tanti gli inciampi sul cammino della Haley, dunque, ma la donna è mobile nonché “feroce“, come da definizione di Weekly Standard, e non si arrenderà facilmente.

Nel caso di una sua débacle, i neocon potranno consolarsi con la carta di riserva, dal momento che anche DeSantis partecipa delle loro follie belliciste, tanto che durante il dibattito ha ingaggiato una gara serrata con la rivale su chi avrebbe sganciato più bombe sull’Iran in caso di ascesa alla Casa Bianca. Tale l’infimo livello dei candidati al trono di spade americano.

Le spine di Trump

Quanto a Trump, sta combattendo con le unghie e con i denti per riuscire ad arrivare a candidarsi, inseguito dalle inchieste giudiziarie e dalle decisioni delle autorità di alcuni Stati che mirano a privarlo del diritto di concorrere per la Casa Bianca, perché accusato di implicazioni nella cosiddetta rivolta del 6 gennaio (l’assalto a Capitol Hill).

Bizzarro che, se anche fosse vera tale accusa, e non lo è affatto, sarebbe escluso dai giochi per una ribellione contro le autorità costituite da un Paese nato a seguito di una rivoluzione popolare…

Una corsa a ostacoli, quella di Trump, della quale è stata investita la Corte Suprema degli Stati Uniti, che dovrebbe risolvere in via definitiva la querelle sulla candidatura. Situazione intricata, dalla quale gli sarà arduo districarsi.

Resta che, se anche riuscisse ad arrivare vivo alle presidenziali, dovrà poi riuscire a battere il suo concorrente democratico in un’elezione che si preannuncia ancor più caotica della precedente, quando i risultati definitivi di alcuni Stati chiave arrivarono settimane dopo lo scrutinio, analogamente a quanto accade in alcuni Stati africani che almeno evitano di dare lezioni di democrazia al mondo.

La nazione indispensabile fa disastri

Futuro incerto per l’Impero, che ancora pretende di essere la “nazione indispensabile”, come conclude con stralunata sicumera David Ignatius al termine di un articolo pubblicato sul Washington Post dedicato alla guerra di Gaza, riguardo la quale, scrive, gli USA stanno tentando di far uscire Israele dal vicolo cieco nel quale si è cacciata, ma le criticità sono tante e tali che gli risulta impossibile farlo, anche per la riluttanza dei Paesi mediorientali a seguire le fantasmagoriche, quanto indispensabili, soluzioni americane.

The U.S. nudges Israel toward an off-ramp from warDa cui, scrive Ignatius, “il paradosso che perseguita la politica del Medio Oriente da mezzo secolo: gli Stati Uniti sono l’unica potenza esterna abbastanza forte da plasmare la regione militarmente e politicamente. Ma non può imporre soluzioni, soprattutto a uno stretto alleato come Israele”.

La cruda verità è che lo slogan della “nazione indispensabile”, coniato all’epoca dalla dimenticabile Segretaria di Stato Madeline Albright, diventato mantra irrinunciabile dei corifei imperiali, suona non più solo come scandalosamente arrogante, ma anche velleitario, eroso e consunto dall’evolversi del mondo, nel quale Washington è rimasta indispensabile solo a se stessa e alle sue residue colonie.

E l’applicazione di tale velleità psico-ideologica alla realtà provoca disastri, dal momento che essa è meno malleabile di un tempo, in grado, quindi, di generare dure reazioni alle sollecitazioni indebite made in USA.