Il raid israeliano e la possibile ripresa delle trattative con Hamas
Nonostante le dichiarazioni di fuoco di alcuni alti funzionari iraniani, atto dovuto, l’Iran non risponderà all’attacco israeliano. Ne fanno fede le parole dell’ajatollah Khamenei, il quale ha dichiarato che l’attacco “non dovrebbe né essere minimizzato né esagerato”.
Gli Usa frenano, ma solo ora…
Parole confermate dalla rivendicazione di Netanyahu: avendo dichiarato che la missione è stata un successo, ha posto fine alla querelle relativa a un secondo raid similare. Partita chiusa, almeno fino alle elezioni americane, anche se la guerra regionale prosegue sugli altri fronti.
Alcune considerazioni sull’attacco israeliano. La prima è la dubbia legittimità. Nonostante Tel Aviv abbia dichiarato di dover rispondere all’attacco iraniano del 1 ottobre, va ricordato che quel raid era stato provocato dall’assassinio di Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas e alleato di Teheran, sul suolo iraniano, seguito dall’assassinio di un alto generale iraniano, ucciso nel raid diretto contro Hassan Narsallah in Libano. Ciò rendeva legittima la reazione iraniana, che peraltro non aveva fatto vittime, e non legittimava una risposta israeliana, le cui ragioni sono solo di ordine strategico e geopolitico.
Al di là del particolare più o meno secondario, l’aspetto più importante del raid israeliano è che è stato frenato in maniera decisa dagli Stati Uniti, i quali hanno imposto moderazione all’alleato mediorientale perché temevano l’inizio di una guerra regionale che non era nel loro interesse, soprattutto a ridosso delle elezioni.
Ciò vuol dire che gli Usa in precedenza hanno omesso di usare i mezzi di coercizione usati con tanta efficacia in questa occasione. Da cui la piena responsabilità per quanto avvenuto e sta avvenendo a Gaza, dove solo nelle ultime tre settimane sono state uccise 800 persone, alle quali vanno aggiunte quelle non decedute nell’immediato; con il sistema sanitario devastato, anche ferite non mortali possono provocare il decesso, per infezione, complicazioni o dissanguamento.
I russi in Israele
La seconda considerazione riguarda un indizio che sembra confermare quanto abbiamo scritto nella nota precedente, cioè che l’arrivo di una delegazione russa di alto profilo in Israele in concomitanza con l’attacco israeliano all’Iran – inviata ufficialmente per trattare con Hamas la liberazione di due ostaggi russi detenuti a Gaza – avesse uno scopo diverso o parallelo da quello dichiarato, cioè quello di mediare tra Tel Aviv e Teheran.
Questo, infatti, il titolo di un articolo di Yedioth Aeronoth: “Aereo russo atterra in Israele per una possibile mediazione con l’Iran”. Chiaramente nessuno in Israele potrà mai ammettere l’esistenza di una trattativa segreta con Teheran, così che anche l’articolo del giornale israeliano ripete il refrain della trattativa con Hamas, che pure esiste.
Ma appare significativa la sua conclusione: “L’arrivo dei russi in Israele ha sollevato domande: perché è arrivato un aereo russo collegato al presidente Vladimir Putin? Il suo arrivo era correlato alla consegna di messaggi a Israele dall’Iran tramite la Russia o era un tentativo di Putin di mediare tra Israele e l’Iran?”.
Va annotato che prima dell’arrivo del misterioso aereo, sul quale le autorità israeliane hanno rifiutato di dare spiegazioni (perché, se i russi dovevano solo trattare con Hamas?), Putin si era incontrato con il presidente iraniano per ben due volte: due settimane fa in Turkmenistan e a margine del vertice Brics di Kazan poco prima che la missione russa partisse per Tel Aviv.
Probabile che la missione non dovesse solo recare messaggi, ma anche monitorare che tutto si svolgesse secondo quanto concordato tra le parti. Adempiuto il compito principale, la missione russa ora si sta dedicando al dossier secondario, cioè la liberazione di due russi rapiti da Hamas nel raid del 7 ottobre.
I negoziati (im)possibili
Sul punto va evidenziato un dettaglio dato dalla tempistica: la possibilità di liberare i russi, confermata dalle dichiarazioni possibiliste di Hamas in tal senso, si è aperta solo dopo l’eliminazione di Sinwar e non prima. Lo rileviamo come dato oggettivo, nulla più, ma che interpella quanti hanno coscienza della complessità di certe organizzazioni apparentemente monolitiche, nelle quali convivono tante anime e sono esposte a tante infiltrazioni.
Quanto ai negoziati con Hamas, sembra che siano ripresi in Qatar, dove attualmente si trova il capo del Mossad David Barnea. Davvero arduo sperare in un accordo anche minimale, come quello proposto dal presidente egiziano al Sisi, che ha chiesto un cessate il fuoco di due giorni per permettere la liberazione di quattro ostaggi in cambio di alcuni prigionieri palestinesi, ma la speranza resta d’obbligo.
Inutile aggiungere che anche solo una minima pausa del conflitto può ridare slancio alla diplomazia, dal momento che dimostrerebbe che gli accordi sono possibili.