Regno Unito: si torna ai (ne)fasti di Tony Blair
Vittoria annunciata del partito laburista nel Regno Unito, con i media mainstream che rilanciano a valanga la notizia fingendo sorpresa per la massa di voti che ha attirato. Un modo come un altro per rivendicare il trionfo dell’establishment, trionfo che nel caso specifico era molto più che scontato, data l’assenza di competitor di Keir Starmer.
La purga di Starmer
In questi anni il nuovo premier ha lavorato duramente per “ripulire” il partito laburista dalla sinistra che faceva riferimento a Jeremy Corbyn, deviandolo verso lidi più che graditi all’establishment, come spiegava Wes Streeting, esponente del nuovo labour, in un intervento a un convegno della Fabian Society, uno dei circoli più influenti del pianeta.
Insomma, con l’incoronazione di Starmer giunge a compimento la rivoluzione avviata da Tony Blair, il primo a realizzare la totale subordinazione del partito laburista britannico alla grande Finanza e all’asse liberal-neocon americano.
E come Blair fu portato al potere nel 1997 tramite un’elezione anticipata dall’esito scontato, la dinamica si è ripetuta ieri (certi ambiti non hanno molta fantasia). Un parallelismo che si riflette anche nei numeri: 418 seggi conquistati allora da Blair, 412 quelli ottenuti ieri da Starmer.
La vittoria laburista dovrebbe, negli auspici dei suoi sponsor internazionali, rilanciare il cosiddetto progressismo di rito anglosassone, cioè dovrebbe conferire nuovo slancio al barcollante partito democratico americano e favorirne la vittoria alle prossime presidenziali.
A tale proposito, ci permettiamo di sottolineare l’importanza della data delle votazioni, ben sapendo quanto le date siano importanti nelle fumisterie simboliste di certe élite: così come le elezioni anticipate che portarono al trionfo il partito laburista guidato per la prima volta da Blair furono fissate per il 1° maggio, festa dei lavoratori, quelle che hanno fatto trionfare Starmer sono state fissate per il 4 luglio, l’Indipendence day degli Stati Uniti.
La vittoria del 4 luglio nel Regno Unito e le presidenziali Usa
Ma per vincere anche in America i circoli anglosassoni di rito antico e accettato hanno bisogno di un cambio di cavallo, dal momento che il bolso e senescente Biden non sembra avere alcuna speranza. Non è un caso che proprio ieri la più prestigiosa rivista britannica, The Economist, abbia pubblicato uno scritto dal titolo: “Perché Biden deve ritirarsi”, che suona come un ultimatum.
Questa la conclusione dell’articolo: “Il rinnovamento dell’America deve iniziare ora. Non potrebbe esserci modo migliore che scegliere un nuovo candidato per sconfiggere Trump”.
Biden resiste, ma le pressioni perché receda aumentano giorno dopo giorno, sia all’interno del partito che nel variegato ambito dei munifici finanziatori dello stesso. Una lotta all’ultimo sangue quella del vecchio presidente, in cui si gioca tanto dei destini del mondo.
Trump lo sa perfettamente, tanto che, nonostante le ovvie critiche alzo zero, non manca di far trapelare la speranza che sia ancora Biden il suo competitor, com’è avvenuto ieri quando, nel fare gli auguri di rito agli americani, ha voluto aggiungervi anche “il nostro incapace presidente” (da notare che ultimamente non insiste nel chiamarlo “spleepy Joe”, come faceva in maniera ossessiva in precedenza; sta cercando cioè di evitare di battere sulla demenza incipiente dell’avversario, sulla quale, invece, insistono quanti vogliono un altro candidato).
Inutile dire che, se riuscisse la manovra americana, Starmer, che ha sostenuto la macelleria di Gaza e la guerra per procura alla Russia fino all’ultimo ucraino, rinnoverebbe i fasti del blairismo, che regalò al mondo l’invasione irachena – unendosi al forcing su George W. Bush perché procedesse – e altre avventure dello stesso nefasto tenore.
Resta da vedere se tra i 412 eletti del partito laburista vi siano ancora politici sopravvissuti alla purga di Starmer, i quali potrebbero vedere in Jeremy Corbyn, eletto come indipendente contro il suo partito (ma con voti laburisti…), un faro alternativo al loro leader.
Come anche è da vedere cosa combinerà Nigel Farage, il nocchiero della Brexit, il quale per la prima volta siede in parlamento. Nell’assise può disporre solo di una pattuglia di eletti del suo Reform Uk, ma l’uomo sa sparigliare, dote che in politica ha un suo valore.
Al di là dell’influenza specifica che avranno i due uomini politici, resta che gli va dato atto di essersi saputi conquistare il diritto di tribuna, sopravvivendo alle manovre messe in atto per eliminarli del tutto dalla politica britannica.