Il secondo attentato a Trump e il reclutatore
C’era quasi riuscito. Ryan Routh era arrivato a un tiro di schioppo da Trump, a soli 300-500 metri, distanza non problematica per colpire un bersaglio con un fucile di precisione come quello che si era portato nell’occasione. Trump stava giocando a golf nel suo residence a West Palm Beach, che dovrebbe avere un perimetro di protezione ferreo, sia per la rilevanza del candidato presidenziale sia perché hanno già provato ad ammazzarlo a Butler, Pennsylvania.
Eppure, nonostante il precedente attentato avrebbe richiesto una maggiore vigilanza, anche in questo caso Trump si è salvato in maniera alquanto fortunosa.
L’attentato sfumato per un soffio
La dinamica dell’accaduto racconta che, mentre Trump giocava a golf, un uomo della sua scorta si era portato presso la buca successiva a quella ingaggiata dall’ex presidente. E qui ha intravisto, forse addirittura per caso, la canna di un fucile sporgere dalla recinzione del campo da golf e ha sparato contro l’ignoto aggressore, dando l’allarme.
L’attentatore, però, è riuscito a fuggire, lasciando dietro di sé un fucile AK-47, due zaini e una telecamera GoPro con la quale avrebbe dovuto immortalare l’omicidio (particolare interessante…).
È stato arrestato in seguito, a un posto di blocco, ma anche questa fuga interpella riguardo le in-spiegabili quanto inquietanti carenze dell’apparato di protezione di Trump, con la Sicurezza che ha lasciato del tutto incustodito, e per molto tempo, il perimetro a ridosso del campo da golf.
Suscita anche grande interesse la figura dell’attentatore, tal Ryan Routh. Nel marzo del 2023, Routh era stato contattato telefonicamente da un giornalista del New York Times, Thomas Gibbons Neff, che stava realizzando un articolo sui volontari che stavano confluendo in Ucraina a sostegno delle forze di Kiev.
Nell’intervista aveva dichiarato di essere un ex operaio edile di Greensboro e di aver “trascorso alcuni mesi in Ucraina” l’anno precedente. Il cronista non specifica, ma è chiaro che non c’era andato in vacanza.
Più interessante ancora l’aggiunta: tornato in patria, Routh stava cercando di reclutare ex soldati afghani che avevano trovato rifugio in Iran e Pakistan dopo l’avvento dei talebani.
Al cronista aveva spiegato l’idea sulla quale stava lavorando: farli arrivare clandestinamente in Ucraina fornendo loro dei passaporti falsi, facilmente reperibili in Pakistan “dal momento che è un paese molto corrotto”.
Altro particolare apparentemente secondario, ma che secondario non è, Routh è stato raggiunto telefonicamente dal cronista del Nyt mentre si trovava a Washington per un incontro con dei politici del Congresso per sollecitare aiuti per l’Ucraina (non si sa se tale incontro abbia avuto luogo).
Accorgendosi forse dell’enormità di quanto rivelava quell’intervista, sulla quale ci soffermeremo in seguito, il cronista in questione ha rispolverato il suo vecchio articolo integrandolo con nuovi cenni. Significativo come ricordi che, quando Routh gli aveva spiegato la sua idea, con “voce concitata, esasperata e un po’ sospettosa” egli, all’altro capo del telefono, aveva “scosso la testa”. Solo un mattacchione, dai…
Il reclutatore
In realtà, nel vecchio articolo non emerge affatto tale connotazione. Certo, la sua idea poteva apparire velleitaria, ma resta davvero impossibile da credere che un ex operaio edile animato da buone intenzioni si metta a tirar su una rete di ex soldati afghani rifugiati in Iran e Pakistan per spedirli in Ucraina con passaporti falsi realizzati in Pakistan.
Leggendo la vecchia intervista, la figura di Routh appare piuttosto quella di un reclutatore, uno dei tanti civili che lavorano nell’ambito di quelle operazioni coperte tanto care alla Cia, grazie alle quali l’Agenzia può operare sottotraccia e senza apparire ufficialmente a supporto di forze armate regolari o irregolari in giro per il mondo a tutela dei variegati interessi degli Stati Uniti.
Certo, la nostra è solo una supposizione, né abbiamo prove a conferma. Sul punto ci limitiamo a ribadire la nota massima andreottiana che recita che a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina.
Per Trump, insomma, tira una brutta aria. Il che vuol dire anche che i suoi antagonisti non sono poi così certi della sua sconfitta alle elezioni, nonostante i media diano la vittoria di Kamala Harris come sempre più probabile, sia perché lo dicono i sondaggi, sia per il successo conseguito nel dibattito contro Trump sia, infine, per lo scontato endorsement della reginetta del pop Taylor Swift, diventata tutt’a un tratto edotta in cose politiche (se con Kamala scoppierà la terza guerra mondiale canterà canzoni struggenti per piangerne le vittime e deplorare il male del mondo).
In una nota dell’11 settembre, nella quale spiegavamo perché la Harris è la candidata delle guerre infinite, scrivevamo: “il compito che si è assegnato Trump resta arduo, sempre se riuscirà ad arrivare alle elezioni”… non era un cenno casuale.
Peraltro, il fatto che l’attentato di Butler, dal quale Trump è uscito vivo per miracolo, sia stato derubricato dal mondo dell’Informazione e della Politica come un banale incidente di percorso del tutto insignificante e da non ricordare, ha reso più facile la reiterazione.
Da vedere se gli apparati di sicurezza americani riusciranno a dare una protezione adeguata a Trump. Cosa che si auspica anche nei confronti di Biden, defenestrato dai suoi perché non organico alle guerre infinite, come dimostra il niet ai missili a lungo raggio all’Ucraina.
Peraltro, la mossa di alcuni giorni fa di metter su il cappellino di Trump non era affatto una boutade, anche se come tale è stata fatta apparire (né poteva essere altrimenti). Potrebbe attirargli sfortuna (a quanti volessero approfondire il senso di Biden per le prossime presidenziali, rimandiamo a una nota pregressa dedicata alla “ostinazione di Biden“).