Siria: la Russia si disimpegna
Tempo di lettura: 2 minuti«A cinque anni esatti dall’inizio della guerra civile in Siria, Putin ordina il ritiro graduale delle truppe russe dalle zone di combattimento: “Tutti gli obiettivi sono stati ampiamente raggiunti”. Decisione assolutamente inattesa che suona a metà tra un gesto politico di buona volontà e un provocatorio disimpegno nel momento in cui a Ginevra sono cominciate le complicate trattative tra il governo di Assad e le varie opposizioni sul futuro del Paese
». Inizia così un articolo di Nicola Lombardozzi sulla Repubblica del 15 marzo, nel quale si accenna al fatto che rimarranno in loco invece i contingenti deputati alla difesa della base navale di Tartus e di quella aerea di Hemeimeem, presso Latakia.
Un cenno anche al fatto che il disimpegno sembra lasciare in sospeso la questione dell’Isis in Siria, non ancora debellata. Interessante, in conclusione, il commento di Aleksandr Golts, oppositore di Putin a Mosca, che ha affermato: «Ha scelto il momento migliore. Per andare oltre sarebbe stato necessario un intervento di terra con conseguenze pesantissime. Intanto Mosca ha ottenuto un riscatto di immagine internazionale e un rafforzamento dell’alleato Assad. La Russia ha fatto il lavoro sporco per tutti
».
Nota a margine. Un’altra mossa del cavallo di Putin, che sorprende ancora una volta Washington come accadde all’inizio dell’inattesa campagna militare. Tante le interpretazioni, tra cui quella che vede la presenza dell’Isis in Siria e Iraq destinata a ridimensionarsi per concentrarsi sul prossimo fronte di attrito in Libia.
Ma certo c’è da tenere in considerazione i costi della campagna militare, che non permettono a Mosca un impegno prolungato (soprattutto in un momento di crisi causato dalle sanzioni e dal calo del prezzo del petrolio).
La mossa del cavallo, che elimina dalla scena la presenza ingombrante dei russi, potrebbe favorire un dialogo meno teso tra Assad e i suoi oppositori a Ginevra. Ma ad oggi è solo un auspicio.
Va rilevato un vizio di forma nella cronaca di Lombardozzi, che risulta peraltro generalizzato. Definire il conflitto in Siria una “guerra civile” è un errore grossolano. Tra gli oppositori di Assad i siriani sono davvero un’infima percentuale, stante che la moltitudine di miliziani inquadrati nelle varie bande armate sono una legione straniera convogliata in loco da reti logistiche e finanziarie collegate a diversi Paesi stranieri.
Peraltro lo rileva un articolo pubblicato lo stesso giorno dal suo giornale, stavolta a firma di Alberto Stabile, nel quale si legge che «Putin è stato abile a muovere questa Santa Alleanza sciita contro le forze anti-Assad, rappresentate da Turchia, Arabia Saudita, Emirati e dagli Stati Uniti
».
Al di là della buona fede di Lombardozzi, non è solo di una questione di lessico. Certa narrativa mainstream ha inquadrato la guerra siriana nella cornice di un confronto tra Assad e suoi oppositori interni, da qui l’espressione guerra civile e il marchio di infamia del quale gode il dittatore Assad.
Una narrativa che viene invertita in Yemen, dove il “legittimo” presidente, appoggiato da una coalizione internazionale guidata da Arabia Saudita e Stati Uniti, fa fronte a una ribellione di sciiti, gli houti, legati all’Iran. Cambiando i fattori non cambia il risultato: in questo caso il marchio di infamia spetta all’Iran accusato di voler destabilizzare il Paese attraverso la longa manus delle milizie sciite e non al dittatore che bombarda civili innocenti… Potenza delle narrative.