Siria: il nodo Idlib e i raid israeliani
Tempo di lettura: 3 minutiPutin, Erdogan e Rouhani si incontrano a Sochi per un altro round di negoziati sulla Siria. A quanto pare, il nodo del dialogo sarà Idlib, ancora in mano ai terroristi di al-Nusra, che non hanno alcuna intenzione di sloggiare.
Due notizie di questi giorni, di fonte russa, confermerebbero tale focus. La prima è l’invito rivolto da Mosca alla Turchia a dare una svolta alla sua azione su Idlib.
La seconda notizia che confermerebbe la criticità Idlib è che al-Nusra sta incrementando le riserve di armi chimiche. Al solito, in caso di attacco tenterà di usarle sui civili per addossarne la colpa agli antagonisti.
Al Nusra e Idlib
Nel settembre scorso il patto tra Ankara e Mosca: Damasco doveva fermare l’offensiva su Idlib, in cambio i turchi si impegnavano a creare una zona smilitarizzata e a isolare le milizie di al-Nusra dalle altre.
La zona smilitarizzata è stata creata, ma non ha evitato che da Idlib continuassero a piovere missili sul territorio siriano. Inoltre, lungi dal restare isolata, al-Nusra ha preso il controllo su tutte le milizie jihadiste di Idlib.
Si è creata una situazione nuova rispetto all’accordo di allora. Ed è probabile che russi e siriani vogliano sbloccarla, dato che ogni giorno che passa rafforza al Nusra (vedi la notizia relativa alle nuove riserve di armi chimiche).
Gli S-300
Sulla Siria va segnalato un lancio dell’Agenzia israeliana Debka nel quale si rivela che gli S-300 inviati dalla Russia a difesa dei cieli siriani non sono ancora operativi, né lo saranno a breve.
Sono così smentite alcune indiscrezioni filtrate in questi giorni da fonti israeliane.
La notizia, in sé anodina, ha invece conseguenze: vuol dire che la Siria è ancora disarmata e i suoi cieli aperti ai raid di Israele, che nelle ultime settimane hanno bombardato due volte il Paese.
Si apre dunque la possibilità di nuovi attacchi, che potrebbero risultare più devastanti dei precedenti, dato che Netanyahu potrebbe esser tentato di usare strumentalmente un successo bellico per risollevare le sorti della sua campagna elettorale.
La guerra elettorale
Non una si tratta di una supposizione: ad accusarlo apertamente di usare strumentalmente l’esercito israeliano nella corsa elettorale sono stati i suoi antagonisti politici dopo i raid pregressi.
Nuovi raid presterebbero il fianco a rinnovate critiche, che però sarebbero superate se i bombardieri di Tsahal raggiungessero qualche obiettivo di alto significato simbolico o tattico.
Forse per scongiurare tale eventualità, oggi il ministero degli Esteri russo ha ammonito Israele a fermare i raid in Siria, rinnovando il pressante invito rivolto dopo i raid precedenti. Reiterazione inutile se non ci fosse un rischio reale.
Il ritiro Usa
Va, infine, segnalata l’indiscrezione del Wall Street Journal, secondo il quale gli Stati Uniti sarebbero pronti a ritirare le proprie truppe dalla Siria nel prossimo aprile.
Non varrebbe la pena di riferire la notizia, stante che sul ripiegamento americano dalla Siria si sono succedute tempistiche disparate e contrastanti. E dato che lo stesso ritiro, sebbene sia ordine presidenziale, è ancora aleatorio.
Eppure la tempistica annunciata dal WSJ sembra avere una concretezza diversa, dato che coincide con le elezioni israeliane.
Sembra cioè indicare che gli Stati Uniti non vogliano mutare lo scenario siriano, tema sensibile della campagna elettorale, prima del voto in Israele.
Legare i due avvenimenti è un modo per rimandare la partenza: il rinvio continuo aggira l’ordine di Trump e dà tempo per mutare il quadro mediorientale per vanificarlo (un’escalation, ad esempio, lo annullerebbe).
Ma è anche un favore a Netanyahu. Il ritiro Usa è stato dipinto dai media israeliani come catastrofico. Facile che sia addossato a qualche imperizia diplomatica del premier.
Inoltre, Netanyahu ha sempre vantato che il suo rapporto intimo con Trump ha reso gli Usa più vicini che mai a Israele. Narrativa che il ripiegamento Usa smentirebbe.