Siria: una timida speranza
Tempo di lettura: 3 minutiIl presidente russo Vladimir Putin e quello turco Recep Tayyip Erdogan si sono incontrati a Soci per favorire i lavori del successivo vertice ad Astana, la capitale del Kazakistan dove più volte esponenti di Teheran, di Mosca e di Ankara si sono riuniti per facilitare un negoziato tra Damasco e i (cosiddetti) ribelli siriani nella ricerca di vie di pace per la Siria.
L’incontro di Soci, si legge in un articolo di Giordano Stabile pubblicato sulla Stampa del 4 maggio, ha «dato un importante impulso ai negoziati. Due i punti di intesa, almeno a parole. Zone-cuscinetto, quattro per l’esattezza, protette dalle operazioni militari e dove i profughi potrebbero trovare protezione e cominciare a tornare se sono all’estero
».
«I garanti sarebbero Russia, Turchia, Stati Uniti, Iran. In pratica una spartizione in zone di influenza. Russi Ovest, turchi a Nord-Ovest, americani a Nord-Est. Iraniani non si sa, ma l’alleato Hezbollah sorveglia già il confine con il Libano. Su queste aree, ha detto Putin, si potrebbe istituire un “divieto di sorvolo”, a patto che i ribelli, nell’area turca, rispettino il cessate-il-fuoco
».
Insomma, senza alimentare stolidi trionfalismi (quante speranze di pace deluse dall’inizio di questa guerra…), pare però che il conflitto siriano veda una schiarita. Ad alimentare timide speranze due fattori.
Il primo è che Erdogan ha bisogno della Russia. Il referendum costituzionale, che gli ha consegnato ampi poteri in patria, non è andato come voleva. Nonostante avesse in mano tutte le leve del potere e avesse represso in ogni modo l’opposizione, ha conseguito la vittoria con un risicato 51%.
Ha vinto, ma ha scoperto di aver molto meno potere di quanto immaginava. Non solo: la repressione delle opposizioni gli ha attirato le reprimende dell’Unione europea, con la quale ormai il contrasto è aperto. Questa duplice debolezza spinge Erdogan a ricercare una sponda reale in Putin, con il quale finora ha conservato un rapporto più che ambiguo, soprattutto per quanto riguarda la guerra in Siria.
Il secondo fattore è che, a quanto pare, gli Stati Uniti hanno cambiato verso riguardo il conflitto. L’opposizione a Damasco e alla Russia, che ha toccato il massimo quando gli americani hanno attaccato con i missili Tomahawk la base aerea siriana di Shayrat – usata anche dall’aviazione russa -, si sta attutendo.
Tanto che martedì Trump ha chiamato Putin per parlare della Siria. Non solo, ha anche accettato di inviare un delegato americano ad Astana nella persona di Stuart Jones, assistente del Segretario del Dipartimento di Stato per il Nord Africa e il Medio Oriente. Un passo auspicato da tempo dalla Russia.
Insomma, sembra che il lancio di missili contro la base aerea siriana ordinato direttamente da Trump abbia permesso al neo-presidente di smarcarsi dalle accuse di coltivare indebiti legami con Putin. Consentendogli una libertà di manovra prima impossibile.
D’altra parte la fermezza con la quale la Russia ha risposto alla provocazione, in pratica minacciando una risposta militare in caso di un’ulteriore aggressione contro i suoi alleati (leggi Damasco), permette a Trump, almeno in questo momento, di indicare ai suoi oppositori interni che l’unica strada percorribile in Siria è la trattativa, a meno di non immaginare un confronto atomico.
Da qui gli sviluppi conseguiti nei colloqui di Astana. Detto questo la variabile esoterica che rende più complessa di altre la crisi siriana deve esser tenuta in debito conto. Influenti ambiti internazionali non recedono dall’idea di vincere a ogni costo questa guerra, epicentro simbolico della “guerra mondiale fatta a pezzi” (papa Francesco). Il regime change deve essere portato a compimento, anche a costo di scatenare l’inferno.
Ma registrare sviluppi di tutt’altro segno serve ad alimentare la speranza, quella che i costruttori di guerra tendono a distruggere. Ché anche la disperazione può diventare, se manipolata bene, un’arma di distruzione di massa (esempio banale: la follia sanguinaria degli adepti dell’Isis). Vedremo.