Sullivan in Israele e l'impeachment di Biden
Secondo alcuni media israeliani, il Consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan, in visita a Tel Aviv, avrebbe dovuto portare a Netanyahu una data di scadenza per la guerra. Poco si sa dei colloqui intercorsi in Israele – e quel poco è alquanto confuso – se non che le autorità di Tel Aviv hanno affermato che la guerra prosegue ad libitum.
Si sa solo che, a seguito delle pressioni USA, hanno accolto alcune richieste di natura umanitaria, come la riapertura del valico di frontiera di Kerem Shalom per incrementare l’arrivo degli aiuti e l’accesso alla Striscia di un quantitativo maggiore di carburante. Una goccia nel mare dei bisogni dei tanti sfollati e nessun sollievo ai bombardamenti continui che fanno strage di civili.
Nulla si dice nei report di un’eventuale scadenza del conflitto e Sullivan si è premurato di dichiarare che gli Stati Uniti non stanno “dando direttive a Israele” (Timesofisrael). Gli Stati Uniti hanno una leva potente su Tel Aviv; lo riferisce Haaretz, che spiega che senza le munizioni americane le operazioni sarebbero compromesse.
Non sappiamo, quindi, se davvero sia stata indicata una scadenza, né se le parole velleitarie delle autorità israeliane nascondano un’accettazione della stessa. Al momento non sembra.
La missione di Sullivan azzoppata dal voto del Congresso
A nuocere alla missione di Sullivan il contemporaneo voto del Congresso con il quale si è approvato un procedimento di impeachment per il presidente Biden a causa dei traffici del figlio.
Difficile che vada in porto, ma il prestigio e l’autorità dell’Imperatore ne escono ulteriormente fiaccati. Arduo, in queste condizioni, imporsi sulla bellicosa leadership israeliana. La partita che si gioca tra Israele e Stati Uniti è complessa, ma al momento la bilancia pende dalla parte israeliana, che sembra irrefrenabile.
Il New York Times riporta che tanti degli sfollati sono stati costretti ad attestarsi ai confini dell’Egitto, i quali però restano serrati. Ciò sia perché l’arrivo di tanti esuli creerebbe seri problemi al Cairo, sia perché gli egiziani non vogliono essere accusati di complicità con Israele nell’epurazione dei palestinesi. “Ma la pressione sta aumentando”, annota il giornale della Grande Mela.
Torna in mente con certa prepotenza quanto ipotizzato da uno studio israeliano all’inizio del conflitto, che suggeriva di epurare la Striscia espellendo i palestinesi in Egitto, precisamente nel Sinai.
Se non è possibile espellerli tutti, c’è un piano subordinato che prevede l’espulsione di una parte considerevole di essi, come annotava Paul Pilar su Responsibile Statecraft: “Più recentemente si dice che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu abbia incaricato il ministro degli Affari strategici, nato negli Stati Uniti, Ron Dermer, di sviluppare un piano per ‘diluire’ la popolazione della Striscia di Gaza al minimo”.
Il modo più semplice per dar seguito a tale intenzione è creare una pressione sui confini egiziani tale che, alla fine, il Cairo sia costretto ad aprirli. Vedremo. Intanto, la mattanza continua.