La tragedia di Gaza è incrementata dal caos costruttivo made in Usa
Alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia si sta svolgendo un altro dibattimento su Israele, stavolta sulle condizioni imposte ai palestinesi. La Corte, è chiamata a dichiarare se Tel Aviv ha instaurato uno status di apartheid nei confronti dei palestinesi e se controlla in maniera del tutto illegittima territori che dovrebbero essere sotto il controllo altrui.
Così, dopo essersi pronunciata provvisoriamente sul genocidio di Gaza, sul quale si attende a breve una seconda deliberazione (nella prima aveva dato un mese di tempo a Tel Aviv per frenare le disastrose derive), è inevitabile che vada a pronunciarsi nuovamente contro lo stato israeliano. Stavolta, peraltro, non è una sola nazione a sollevare la questione, sono quasi cinquanta gli stati che stanno formulando accuse, oltre a diversi organismi internazionali di tutela dei diritti umani.
Netanyahu, da pragmatico a neocon messianico
Impossibile difendersi da tali accuse, peraltro lanciate negli anni anche da analisti e media israeliani (e dall’ex capo del Mossad Tamir Pardo). Così Israele, per tramite di Netanyahu, ha scelto di ignorare la cosa. Il premier israeliano è stato, al solito, tranchant, con un banale post su X nel quale spiega che non riconosce alcuna legittimità alla Corte e che il dibattimento ha l’obiettivo di “violare il diritto di Israele di difendersi dalle minacce esistenziali” (le accuse, parallele, di un’equivalenza tra Hamas e Onu appaiono frutto di isterismo).
Purtroppo, non è rimasto nulla del Netanyahu degli anni passati che, seppur cinico e spietato, era anche pragmatico, cosa che gli permetteva di evitare l’uso della forza quando era controproducente.
Non è più cosi. Ormai, infatti, ha sposato senza riserve la causa dell’ultradestra messianica, reputando che sia l’unico appoggio sul quale può contare per salvarsi dal buio che incombe su di lui a guerra finita.
Causa messianica alla quale ha aggiunto l’agenda che condivide con i neoconservatori Usa, cioè la follia propria delle guerre infinite, estranea alle pulsioni messianiche dell’ultradestra (limitate alla creazione della Grande Israele). Un mix distruttivo che sta sprofondando Israele e il mondo in un tunnel senza uscita.
Il tragico veto Usa al cessate il fuoco
Notevole, in tal senso, il fatto che gli Stati Uniti abbiano opposto per la terza volta un veto a una risoluzione proposta all’Onu dall’Algeria che chiedeva un cessate il fuoco immediato. Il presidente dell’autorità palestinese ha stigmatizzato duramente la decisione Usa, accusando Washington di essere “complice del genocidio” della Striscia.
Se riportiamo la condanna di Abu Mazen, tra le tante che si è attirato il niet Usa, è perché Washington si atteggia a difensore della causa palestinese, proponendo al mondo arabo piani per il dopoguerra che prevedono la nascita di uno Stato palestinese. Si può facilmente comprendere come con tale improvvida e reiterata decisione gli Stati Uniti hanno perso ogni autorità morale presso i palestinesi, verso i quali in tal modo dimostrano un approccio da dominus coloniale piuttosto che da partner ausiliare.
Ma l’approccio, in realtà, deriva da una malattia più profonda della politica estera statunitense. Lo denota il fatto che, come scrive Alon Pinkas su Haaretz, lo Stato palestinese nascerebbe all’interno di una nuova architettura di sicurezza della regione mediorientale, sulla quale stanno lavorando intensamente i diplomatici americani dall’inizio della guerra.
Un’architettura invero aleatoria, tanto che Pinkas conclude così l’esposizione del progetto made in Usa: “Se il piano vi sembra troppo fantasioso: non siete i soli”. In tale ambito, scrive Alastair Crooke riprendendo l’analisi di Pinkas, uno stato “palestinese provvisorio, smilitarizzato e futuro, senza confini delineati o specificati, non è uno stato. Si tratta di un vero e proprio Bantustan“.
Il ritorno del caos costruttivo neocon
Il diniego del cessate il fuoco, il sostegno “incrollabile”, militare e diplomatico, a Israele, nonostante le evidenti derive della sua campagna – stigmatizzate ieri in maniera inequivocabile anche dalla Gran Bretagna con la presa di posizione del principe William e del leader dei laburisti (incalzato da una ribellione interna perché finalmente si pronunciasse) – tutto il lavorio statunitense per dar vita a un nuovo Medio oriente, fanno intravedere che Washington sta cercando di utilizzare quanto sta avvenendo per i suoi obiettivi geopolitici piuttosto che per risolvere la causa palestinese (alla quale è costretta a dare una qualche soluzione solo per evitare un ulteriore deficit di credibilità internazionale, già più che appannata).
Al tempo, la sorellastra di Madeleine Albright, Condoleezza Rice, anch’essa assurta alla guida Dipartimento di Stato (l’Impero è ormai preda del familismo), pubblicizzò la formula del “caos costruttivo” che avrebbe creato un “nuovo medio oriente”, diventata idea guida della politica estera americana a trazione neocon.
A quanto pare, tale è proprio l’approccio dell’amministrazione Biden rispetto alla tragica situazione attuale (d’altronde il Segretario di Stato Tony Blinken è della scuola Clinton, neocon liberal).
Così più che porre rimedio alla tragedia palestinese, si vuole usare il caos generato da questo conflitto regionale per dar forma a un nuovo Medio oriente, più consono ai disegni Usa. Inutile dire che tale progetto, come sempre è accaduto per le idee e soprattutto per le avventure neocon, è foriero solo di ulteriore caos e di ulteriori tragedie.
Per fortuna, qualche mente lucida ancora esiste in America. Lo denota il fatto che, dopo che l’Iran ha imposto alle milizie alleate in Iraq e Siria di non attaccare più le basi americane, gli Usa hanno smesso, almeno per ora, di lanciare raid su tali Paesi, iniziati dopo la morte di tre dei suoi soldati. Un accordo tacito, che apre qualche labile spiraglio.