16 Gennaio 2025

La tregua a Gaza che (quasi) tutto il mondo aspettava

Trump annuncia il cessate il fuoco. Biden lo segue, ma è solo teatro. La destra messianica furiosa con il futuro presidente Usa. che è riuscito a piegare Netanyahu
di Davide Malacaria
La tregua a Gaza che (quasi) tutto il mondo aspettava
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Trump ha annunciato l’accordo su Gaza prima di tutti, intestandosi così, non certo illegittimamente, il merito dell’intesa. Infatti, l’annuncio successivo ed esultante di Biden, che si è presentato davanti ai microfoni insieme a Tony Blinken e alla vicepresidente Kamala Harris, è stato solo teatro, un tentativo maldestro di eludere le proprie responsabilità per i crimini commessi contro la popolazione palestinese in combinato disposto con l’alleato di Tel Aviv.

L’espressione di Blinken e il ruolo di Trump

La faccia offuscata del Segretario di Stato durante la conferenza stampa evidenziava più di altri particolari come la tregua ottenuta da Trump sia stata raggiunta nonostante i tentativi dell’attuale amministrazione Usa di far proseguire la guerra sotto la futura presidenza.

Più che il debole e ricattabile Biden, vinto dalle vicissitudini del figlio Hunter, a supervisionare la mattanza palestinese da parte di Israele sono stati il Consigliere per la Sicurezza nazionale Jacob (Jake) Sullivan e, soprattutto, Tony Blinken, fantoccio quest’ultimo di Hillary Clinton, che ha ancora un’influenza decisiva nel Dipartimento di Stato grazie al mandato pregresso.

Ma questo sembra ormai appartenere al passato, che ormai la tregua sembra cosa fatta, al di là dei tentativi dell’ultima ora di Netanyahu di mandarla all’aria per l’ennesima volta tentando di far leva su asseriti voltafaccia di Hamas rispetto agli accordi sottoscritti. Da qui il ritardo della ratifica dell’intesa da parte del governo israeliano, che però dovrebbe alla fine recepirla.

US ‘confident’ last-minute hostage deal issues can be solved, truce can start Sunday

Che sia stato Netanyahu a far fallire gli accordi pregressi e non Hamas, come amavano dire politici e media in linea con l’hasbara israeliana, è notorio. Lo ribadisce Hamos Arel oggi su Haaretz, lo ha rivendicato pubblicamente e con orgoglio ieri il Consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir, che si è intestato i fallimenti pregressi, anche se il suo ostruzionismo sarebbe stato inane senza il supporto di Netanyahu.

How Trump Scared Netanyahu Into Accepting a Cease-fire Deal With Hamas

Di grande interesse, per capire quanto accaduto, il titolo dell’articolo di Arel succitato: “Come Trump ha spaventato Netanyahu per fargli accettare un accordo sul cessate il fuoco con Hamas”. Questo il significativo sottotitolo: “Cinico, riluttante, timoroso: Benjamin Netanyahu, che ha respinto lo stesso accordo sugli ostaggi quando l’amministrazione Biden lo aveva proposto mesi fa, è stato ora costretto a fare concessioni di vasta portata” (il neretto è nostro).

Tranchant l’ex diplomatico israeliano Alon Pinkas, che ha detto alla CNN: “Se vi chiedete cosa ha cambiato le carte in tavola e cosa ha spinto Netanyahu a dire di sì dopo molti mesi di resistenza, è stato il fattore Donald Trump”.

La destra messianica contro Trump

Il titolo dell’articolo di Arel fa pendant con un altro articolo di Haaretz, dal titolo: “L’estrema destra israeliana ora si rende conto che Trump non è il salvatore che immaginava”. Tanto è vero che da tali ambiti si sono levate critiche feroci contro il futuro presidente.

 Israel's Far Right Now Realizes Trump Isn't the Savior They Imagined

Bizzarro, ma anche no, che quanti in Israele criticavano Netanyahu sia per la gestione della guerra sia per la sua indifferenza per la sorte degli ostaggi israeliani hanno blandito in ogni modo l’amministrazione Biden e avversato Trump, ancora oggi oggetto di recriminazioni (tale la forza della narrazione sull’asserito sodalizio Trump-Netanyahu).

Detto questo, nonostante l’energica iniziativa distensiva, sarà difficile per il futuro presidente contrastare la spinta per la Grande Israele, anche se in tale azione potrebbe avvalersi dell’interesse di Tel Aviv per finalizzare gli Accordi di Abramo.

Il punto è che la Grande Israele, prospettiva che non prevede la nascita di uno Stato palestinese, può convivere, anzi rafforzarsi grazie a tali Accordi. Tutto, quindi, si regge sulla fermezza dell’Arabia Saudita, decisiva per la riuscita degli Accordi, a tener ferma la barra su uno scambio tra la normalizzazione dei rapporti con Israele e la nascita della Palestina, posizione su cui si è attestata durante il “genocidio” palestinese (in tal modo il principe ereditario saudita ha definito gli orrori consumati a Gaza).

Probabile che Trump, che con i sauditi ha un rapporto privilegiato, cerchi di far leva sulla posizione di Riad per convincere Netanyahu e i suoi tanti sodali a più miti consigli, ma l’esito resta appunto incerto, da cui l’incertezza per il futuro dei palestinesi, sia di Gaza sia della Cisgiordania, con quest’ultima messa nel mirino dalle forze messianiche ultra-ortodosse, per le quali l’acquisizione della Giudea e della Samaria resta un obiettivo irrinunciabile. La possibilità che riprenda la mattanza di Gaza è dunque rischio reale, ma intanto c’è il respiro concesso da quest’oasi di tregua.

Saudi crown prince says Israel committing 'genocide' in Gaza

La battaglia dell’Aja

Quanto al genocidio palestinese, che per tanto mondo è assodato, Israele lotterà con tutte le sue forze perché la Corte internazionale di giustizia eviti di emanare una sentenza in tal senso, perché la condanna, sebbene non abbia conseguenze pratiche, avrebbe un significato simbolico devastante per Israele che, nata da un genocidio, teme che potrebbe finire se tale marchio fosse conclamato dalla comunità internazionale.

Per questo su questa battaglia converge tutto l’establishment ebraico – con eccezioni che confermano la regola – sia in Israele che nella diaspora, sia i fan di Netanyahu che i suoi antagonisti. Uno scontro che è già parte di una trattativa ad altissimo livello, come si evince dal fatto che il presidente della Corte sia stato chiamato a ricoprire la carica di presidente del Libano, sviluppo che ne ha determinato le dimissioni.

Il posto vacante della Corte sarà ricoperto, non a caso, da Julia Sebutinde, finora vicepresidente, che si è fatta notare perché voce discorde dal coro, avendo votato sempre a favore di Israele in questa sanguinaria temperie (di ieri il servizio della BBC che documentava come la cosiddetta zona umanitaria di Gaza sia stata bombardata almeno 100 volte dallo scorso maggio).

Pro-Israel Judge Julia Sebutinde to assume presidency of the International Court of Justice

Ma questo e altro appartiene all’incerto futuro, il presente vede la fine, a meno di tragici imprevisti dell’ultima ora, del massacro palestinese, che anche dopo l’annuncio della tregua hanno dovuto subire il morso delle bombe: 80 i morti di questa feroce coda del conflitto (saranno stati uccisi mentre festeggiavano la fine dei bombardamenti…).

Ci sia permessa una chiosa a margine: la tregua è stata annunciata nel giorno in cui la Chiesa fa memoria di san Cosma il melode (cioè autore di melodie), vescovo di Mayuma presso Gaza. Coincidenza temporale che sarà stata di conforto a papa Francesco, che ha denunciato con forza gli orrori di Gaza, e a quanti nella Chiesa (non tutti in verità) si sono uniti alle sue preghiere per la pace in Terrasanta.